Guerre di lingua - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Tastiera russo / tedesca
Tastiera russo / tedesca | Copyright: Kecko / Flickr

Guerre di lingua

L'uso politico del linguaggio nel conflitto in Ucraina.

Tastiera russo / tedesca | Copyright: Kecko / Flickr
Andrea Braschayko

laureando presso l'Università di Bologna all'indirizzo di Scienze Politiche corso Sviluppo locale e globale, attualmente frequenta all'Università di Wroclaw un corso in East and Central European Studies in preparazione di una tesi di laurea sulla guerra in Donbass. Scrive per diversi giornali italiani, come TheWise Magazine, The Post Internazionale, Il Foglio e Valigia Blu.

Tra le radici della guerra in Ucraina e del precedente conflitto in Donbas del 2014 la diversità etnica del paese è stata spesso quella più nominata, in particolare la questione linguistica tra russofoni e ucrainofoni. Se prima dell’annessione russa della Crimea (avvenuta nel 2014) il tema era inesistente, è con l’ex presidente Poroshenko che sono state varate nuove norme linguistiche per la scuola e le amministrazioni pubbliche, oltre che all’introduzione di quote di ucrainofoni nelle radio e delle trasmissioni televisive. Un percorso riassunto nella legge 5670-d approvata nell’aprile 2019, criticata per mettere sotto pressione le minoranze dallo stesso Zelensky, che subentrò a Poroshenko poche settimane dopo.
In un recente sondaggio, il 90% dei russofoni ucraini ha risposto di non essere mai stati discriminati nell’uso della lingua, mentre secondo il 67% di un altro campione una questione linguistica in Ucraina nemmeno sussiste. Sentimenti e tendenze acuite dall’invasione russa del 24 febbraio, dopo la quale molti ucraini di lingua russa hanno scelto volontariamente di cominciare a imparare e usare l’ucraino nella loro quotidianità.

Spesso la lingua parlata dai russofoni d’Ucraina è leggermente diversa da quella originale, si influenza con l’ucraino generando varietà miste, come il surzhyk: durante i combattimenti e la caccia ai collaborazionisti e alle spie (filo)russe ha avuto anche una dimostrazione pratica. Per fare un esempio, secondo il linguista Rustam Gadzhiev il nome di un tipico pane ucraino, la palianytsia, è impronunciabile correttamente da chi conosce unicamente il russo senza tradire il proprio accento, fungendo quasi da password interna agli ucrainofoni. Il Consiglio di sicurezza ucraino ha addirittura pubblicato, in un tweet, la lista delle parole che possono essere utili per identificare la provenienza di una persona nel caso si sospetti essere un collaborazionista o una spia. Non fosse che nelle regioni meridionali ed orientali del paese sono in molti a non conoscere l’ucraino pur essendo antirussi, sarebbe certamente un escamotage meno rischioso e fallace.

La tendenza più evidente e singolare in ambito linguistico in questi quattro mesi di guerra è stata, invece, la creazione di disfemismi e variazioni semantiche da parte degli ucraini per definire gli invasori russi. Il New York Times ha dedicato un articolo alla parola ruscism, coniata dagli ucraini unendo le parole “russkij” e “fascism”. In realtà l’uso di epiteti e insulti linguistico-etnici è un fenomeno sviluppatosi da entrambi i fronti già dal 2014, come sostiene un paper del 2018 delle antropologhe russe dell’Università di San Pietroburgo Darja Radchenko e Aleksandra Arkhipova, dal titolo “La lingua dell’odio del conflitto russo-ucraino come attacco e difesa”.

Lo scrittore e filologo Ostap Ukrainets, autore di un popolare canale divulgativo su Youtube, ha stilato una sorta di abbecedario delle parole usate dagli ucraini per definire i soldati russi e parte della popolazione. Alcune sono state adottate quest’anno, altre sono riprese da una tradizione precedente addirittura all’epoca sovietica.

Da mesi i soldati invasori, complice l’eco di massacri come quelli di Bucha e Irpin’, sono chiamati dagli ucraini orchi. Secondo Ukrainets, ciò è un evidente richiamo alla letteratura di Tolkien, in cui gli orchi – precedentemente elfi (quasi un parallelo con la precedente convivenza pacifica e conviviale dei russi con gli ucraini) – sono succubi della paura e dell’odio per Sauron, che li ha costretti a prendere questa forma. Le Monde ha dedicato un articolo alla diatriba tra fan ucraini e russi del Signore degli Anelli riguardo al significato politico attuale dell’opera di Tolkien.

Alcuni insulti arrivano da più lontano nello spazio e nel tempo, come svinosobaki (letteralmente l’unione delle parole maiale e cane) sono derivazione della parola tedesca «Schweinehund».
Altre ancora attingono da precedenti stereotipi e convenzioni: moskali è storicamente il termine usato dagli ucraini per definire i soldati dell’Armata rossa, di ovvia derivazione dalla parola Mosca. Di origine secolare anche le parole katsapy – dall’antico “kak tsap” cioè “come una capra” poiché già nel Medioevo i popoli delle terre dell’attuale ucraina identificavano i forestieri del nord-est per la loro barba lunga ma rada, come quella di una capra – e vatnyk, cioè il nome del pesante giubbotto di cotone (in russo vata) che i siberiani indossavano per sopravvivere alle fredde temperature invernali.

La Russia stessa in quanto paese viene a volte definita Rusnja, un richiamo peggiorativo dell’antica Rus’ nata a Kiev ma secoli dopo traslocata in altre forme sempre più verso gli Urali. Una tendenza degli ultimi mesi è anche quella di scrivere “russia”, con la lettera in minuscolo (lo stesso per “putin”), rimarcando la mancanza di rispetto e allo stesso tempo la sovrapposizione con il Cremlino.
«La Russia con la lettera maiuscola, per me, è quella di Čajkovskij, Čechov, Achmatova, Sacharov, Politkovskaja e tanti altri» scrive il filosofo e direttore dell’Istituto ucraino della memoria Anton Drobovyč.

In Ucraina non sembrano tutti concordi su queste scelte linguistiche nei confronti del nemico. Il filologo e ucrainista Oleksandr Avramenko sostiene che non ci sia nulla di male nello scrivere “russia” anche per i media. Una visione che è condivisa anche da diversi media e politici: il 9 aprile il sindaco di Makariv ha affermato ai microfoni televisivi che erano stati trovati i corpi di 132 civili, uccisi «dagli orchi russi», mentre negli stessi giorni il governatore di Sumy dichiarava che la regione fosse finalmente «libera dagli orchi». Secondo una delle più importanti giornaliste ucraine Myroslava Barčuk , invece, sia l’uso delle lettere minuscole sia i neologismi disfemici sono «simbolo di infantilismo e ignoranza», e inoltre potrebbero essere un tentativo inconscio di rimozione del dolore «che rischierebbe di far dimenticare di chi si sta parlando – dei russi, che vanno chiamati col loro unico nome».

In un editoriale dell’Ukrainska Pravda lo stesso Drobovyč prova a riassumere: la nuova terminologia verso i soldati e cittadini russi non nasce dalla propaganda, ma “dal basso”. Ne è evidente la matrice psicologica, poiché dalla frase «i russi sono dei criminali» si ottiene molto meno appagamento e sollievo rispetto all’inveire contro gli «orchi disumani senza compassione» che hanno distrutto la tua casa; è sicuramente la fase di elaborazione di un trauma, nell’ambito di due popoli che hanno condiviso la storia e parlato due lingue sorelle. Allo stesso tempo Drobovyč fa notare che il chiamare persone reali con termini legati alla sfera animale o calunniosi può velocemente sfociare nella disumanizzazione e divenire benzina per un ancor più acceso odio etnico; «il nemico andrà ricacciato fuori dal paese, ma la sua responsabilità storica andrà stabilita secondo i principi della legge e del buonsenso. Sconfiggendo il drago, non potremo permetterci di trasformarci in esso».

Illustrazione Volodymyr Polischuk

Illustrazione Volodymyr Polischuk

Ciò ci parla di un tema poco dibattuto nella letteratura accademica dell’odio etnico connesso al linguaggio. La disumanizzazione tramite simboli e parole ci accende quasi sempre nella mente le pratiche dei nazisti contro gli ebrei, o delle grandi potenze imperiali verso i popoli colonizzati.
Un articolo di ricerca – “The enemy as animal” – di Emile Bruneau e Nour Kteily smentisce l’ipotesi per la quale la disumanizzazione è applicata solamente da chi detiene il potere verso le masse conquistate, nell’ambito del genocidio, della colonizzazione, della schiavitù e – appunto – della guerra di invasione. Secondo gli autori, la disumanizzazione può essere simmetrica e bidirezionale anche nei contesti di guerra asimmetrica. Il caso analizzato, quello del dialogo fra israeliani e palestinesi durante il conflitto nella fase calda del 2014, sembra confermare che non ci sia differenza di magnitudo nella violenza verbale fra i due gruppi, nonostante la percezione condivisa di Israele come dominante e “detentrice di potere” nel conflitto.

Nel caso specifico di Russia e Ucraina, lo studio precedentemente citato di Radchenko e Arkhipova giunge a conclusioni simili, tuttavia trovando nei dati una prevalenza di violenza verbale da parte dei sostenitori dell’invasione – almeno nel frame 2014-2015, nel quale viene svolta l’analisi, cioè nel periodo fra l’occupazione della Crimea e i secondi accordi di Minsk, che hanno trascinato la guerra del Donbass in uno stato di conflitto a bassa intensità. Nel campione – un’analisi dei post, articoli e contenuti estrapolati dal motore di ricerca russo Yandex – gli insulti più ricorrenti erano “banderovtsi”, una definizione dei russi per definire gli ucraini come seguaci di Stepan Bandera, per il 26% e “khokhly” (17%), un insulto etnico secolare russo che identificava gli ucraini dalla tipica capigliatura dei cosacchi.

Non solo: secondo lo studio gli ucraini hanno preso con maggiore autoironia e indifferenza l’uso degli insulti etnici. Prendendo come riferimento i soldati che combattevano sul campo nel Donbass, ben il 91% della tecnica da combattimento filorussa presentava scritte di insulti etnici verso gli ucraini, mentre solo nel 9% dei casi ironizzava sui disfemismi nemici – il riferimento più presente era l’abbastanza neutra definizione di “separatista”. Al contrario, ben il 68% dei mezzi dei battaglioni volontari ucraini poneva scritte di insulti russi rivisitati: “Bandera incazzato” sui tank T-72, “Ukrop” sui BTR-80, “Khokhol d’acciaio” sugli AutoKrAZ.

Se la violenza verbale russa è malriuscita nell’intento di provocare gli ucraini, lo ha fatto molto bene la retorica focalizzata sulla terminologia della Seconda Guerra Mondiale (o Grande Guerra Patriottica, per come viene ricordata in Russia) usata da Putin e dai russi nei confronti degli ucraini “nazisti”. In conseguenza di questo, in una guerra che è già di logoramento e che richiama alle trincee novecentesche, un uso di termini provenienti da quel frame è esploso nel conflitto in Ucraina: “collaborazionista” e “occupante”, “Gauleiter” per definire i politici messi a capo dai russi nei territori occupati di Kherson e Melitopol, persino il “Lend-Lease Act” statunitense di aiuto per l’Ucraina richiama i prestiti agli alleati della coalizione anti-Hitler.

In un tale contesto, la definizione dei soldati ucraini come neonazisti ha serie conseguenze pratiche sul campo di battaglia: lo testimoniano i report di Amnesty International che parlano della forte disumanizzazione e crudeltà che i prigionieri ucraini subiscono dai soldati russi. Allo stesso tempo, la retorica russa della denazificazione è ancora più inquietante di fronte al simbolismo della Z, che i russi hanno scelto come raffigurazione dell’invasione. Nella scrittura correlata alla guerra, la Z ha ormai sostituito l’equivalente cirillico della “З”, e il suo uso sottolinea implicitamente l’appoggio all’invasione dell’Ucraina. Essa è presente dappertutto in Russia, e al contempo il governo spinge per una sua sempre maggiore diffusione: sulle targhe della auto, Z umane fatte di bambini malati di cancro, la Z è presente persino sulle uova.

In una certa forma di revanscismo verso la fallace accusa di nazismo dei russi, secondo alcuni ucraini la Z russa richiama persino il Wolfsgangel – dimenticando però che quello completo è nella simbologia del battaglione Azov, che ufficialmente dice essere banalmente intersezione delle lettere latine I ed N: idea della nazione.
Altri, più cautamente ironizzano sulla correlazione con Zombie; in un video virale, dei ragazzi russi arrestati a Mosca durante i primi giorni dell’invasione, cantano proprio la canzone dei Cranberries.

Secondo Rustam Gadzhiev «la parola è uno specchio, fa trasparire tutto. Più è tragico un evento, maggiore sarà il suo impatto sulla lingua».
«Queste forme sono entrate anche nella scrittura poetica dell'Ucraina di oggi, che, già molto attiva nella rielaborazione del trauma bellico a partire dal 2014, dal 24 di febbraio si è fatta ancora di più voce e strumento di lotta di una nazione unita contro l’aggressione» spiega Alessandro Achilli, ricercatore in lingue e letterature slave, in particolare di poesia ucraina contemporanea.
Nel preambolo della Costituzione dell’UNESCO si scrive che «le guerre iniziano nella mente degli uomini». Il linguaggio ha avuto, negli ultimi otto anni, una valenza decisiva nel separare russi e ucraini. Con forte apporto della propaganda statale e del revisionismo storico per i primi, con un odio e disprezzo dal basso per i secondi – soprattutto, e inevitabilmente, negli ultimi quattro mesi.
In una pace che sembra sempre più un miraggio, la parola – così simile e comprensibile tra le due lingue – avrà l’effetto di dividere più che riavvicinare due popoli per cui nulla sarà più come prima, nemmeno il dialogo.

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Andrea Braschayko

laureando presso l'Università di Bologna all'indirizzo di Scienze Politiche corso Sviluppo locale e globale, attualmente frequenta all'Università di Wroclaw un corso in East and Central European Studies in preparazione di una tesi di laurea sulla guerra in Donbass. Scrive per diversi giornali italiani, come TheWise Magazine, The Post Internazionale, Il Foglio e Valigia Blu.

Pubblicato:
01-07-2022
Ultima modifica:
28-06-2022
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