Videoludico italiano - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Riccardo Romiti, in arte Reynor
Riccardo Romiti, in arte Reynor | Copyright: https://www.instagram.com/reynor02

Videoludico italiano

Il settore dei videogame in Italia è in pieno fermento, tra un passato pionieristico e un futuro all'insegna della creatività.

Riccardo Romiti, in arte Reynor | Copyright: https://www.instagram.com/reynor02
Diego De Angelis

è un programmatore informatico e da anni scrive sul web. Ha collaborato con Vice, Esquire, UltimoUomo e altre riviste scrivendo di cultura popolare, questioni sociali e scienza.

Il mondo dei videogiochi negli ultimi vent’anni ha vissuto una serie di eventi di rottura notevoli: tre generazioni videoludiche (si è passati dalla sesta, Playstation II e Dreamcast, alla nona, quella delle neonate PS 5 e Xbox Series X), la nascita delle console ibride (come Nintendo Switch), il fenomeno del multiplayer online, abbiamo visto console disposte di controller dotati di sensori di movimento, videogiochi a realtà aumentata e virtuale, scosse aziendali più o meno grosse (l’ultima degna di nota è l’acquisizione di Bethesda da parte di Microsoft), il lento ma inesorabile abbandonato del formato fisico per quello digitale e, conseguenza, la nascita e il dominio dei marketplace (Steam, GOG, gli store Sony e Microsoft, etc): sono tanti gli eventi e non si finirebbe di elencarli. Ma se c’è qualcosa che non possiamo non citare è l’esplosione del mercato degli indie. A partire, forse, dalla ri-semantizzazione del termine stesso. La questione sulla quale torneremo nel corso di questo articolo è soprattutto la seguente: come sta il videogioco italiano? 

Rispondere alla domanda posta è più complesso di quanto ci si possa pensare: si parla di industria videoludica, quindi di case di sviluppo? O del mercato distributivo? Di critica videoludica o più generalmente lo scrivere di/sui videogiochi? O dei content creator tra Twitch e Youtube?

Sicuramente del fermento c’è, evidenziato da un periodo storico che vede l’uscita di alcuni saggi interessanti, un film documentario e la pubblicazione in Gazzetta del First Playable Fund, il fondo statale per chi sviluppa videogames.

Mimesis ha pubblicato per le collane Cinergie ed Eterotopie due saggi: Il Videogioco in Italia. Storie, Rappresentazioni, Contesti, a cura di Marco Carbone e Riccardo Fassone e Game Over, a cura di Matteo Bittanti. Il secondo è un ottimo e possente volume per chi vuole sapersi destreggiare tra gli angoli più controversi del videogioco (odio, criptofascismo, immaginari neoliberali e via così) ma è il primo che ci racconta dell’Italia da videogiocare, di come il videogame si è radicato e di come operano gli agenti che gli circolano attorno.

Uno scopo che il videogioco italiano si pone è quello di cercare di costruire una storia, anche a partire di chi si occupa del medium e non solamente lo crea. Come nel caso dell'informazione e la divulgazione sul videogioco. I trentenni come il sottoscritto ricordano l’era delle riviste, che probabilmente ha vissuto il periodo d’oro tra gli anni Novanta e i primi del Duemila. Su questo il saggio, nello specifico nel capitolo “Da Zzzap! alle app” si occupa di raccontare l’evoluzione della rivista videoludica, del boom post-Playstation e della crisi dopo la diffusione di Internet. Secondo Bittanti le riviste cartacee rimasero indietro anche per non essere riuscite ad apparire, nelle logiche di mercato, qualcosa di più oltre ad una guida per acquisti. La marginalizzazione della carta stampata da una parte e la nascita di un modo di raccontare e giocare i videogiochi su Youtube, Twitch e riviste online.

A proposito di piattaforme e fruizione del media il libro contiene l’intervento di Toniolo (saggista e docente), I videogiochi su Youtube: un confronto fra l’Italia ed estero, buon punto di partenza per parlare di chi usufruisce delle piattaforme di streaming. 

Se esiste una preistoria del videogioco su Youtube Italiano, il nome storico è quello di Marco “Farenz” Farina, uno dei primi creatori di contenuti su Youtube: realizzati con stile “arrabbiato” e sarcastico, ispirato al padre fondatore del genere, Angry Videogame Nerd (il canale dietro James Rolfe, quando tutto cominciò nel 2004 con un video su Castlevania II). Come fa notare Toniolo, Farenz abita lo schermo del suo canale più dei videogiochi stessi, che raramente vengono mostrati (pochi montaggi e qualche trailer). Farenz non solo è pioniere italiano, ma anche uno dei rappresentanti più noti dello stile “cultura della cameretta” (citazione che Toniolo eredita dal seminale saggio di Burgess/Green Youtube. Online video and participatory culture). La “cultura della cameretta” è il set informale che sostituisce quello artificioso della televisione. È a tutti gli effetti la stanza da letto del conduttore e archetipo narrativo del videogiocatore in fase infantile/adolescenziale.

Seppur distanti dallo stile del lets’play, ovvero lo streaming commentato del content creator, che in Italia sarebbe arrivato solamente negli ultimi dieci anni grazie alla diminuzione delle difficoltà tecniche date dalla registrazione e che, oggi rappresentano il nucleo dello streaming videoludico, possiamo considerare il caso Farenz centrale su alcune questioni sul fare di videogiochi in Italia.  Perché, come nel caso del redattore cartaceo, c’è sempre un forte elemento emozionale nei video di Farenz. Negli anni il nucleo dei follower (ma possiamo chiamarli semplicemente affezionati) dello youtuber ha sviluppato nei confronti di Farenz un sentimento di informale amicizia (condivisa anche dal sottoscritto). Aver seguito per anni il canale di Farenz vuol dire anche (e soprattutto) aver visto la sua biografia fuori dallo schermo. Chi lo segue sa cosa significano gli annuali Caro Farenz ti scrivo... di fine anno. In uno, piuttosto memorabile, aggiornava i suoi fan di essere diventato padre. 



Per stare sui fondamentali non si può non citare un pilastro della scena nazionale: Sabaku No Maiku (Michele Poggi), divenuto popolare con la playlist dedicata al primo capitolo di Dark Souls, conosciuta anche come L’Anima Oscura. Era il 2013 e il suo “Benvenuti, sono Michele, anche conosciuto come Mike of The Desert [...]” diventa parte di un suo registro linguistico ed espressivo che lo rendono una figura di culto tra gli appassionati della saga videoludica dei Souls (tre capitoli e la nascita di una sorta di genere videoludico creato da Hidetaka Miyazaki) e oltre. Nel tempo la figura di Sabaku si trasforma in una sorta di messia, santone incantevole: lunghi monologhi, sofisticati, curati e sempre comprensibili, amore per il medium, condivisione di alcune storie personali che lo mettono sullo stesso piano delle migliaia di followers. Si svincolerà da Dark Souls per diventare un commentatore e analista profondissimo sul mercato e su altri fondamentali del videogioco (soprattutto nipponico).

 


Nel mondo dell’intrattenimento di gaming tra Youtube e Twitch ci finiscono soggetti cross-tematici: Yotobi (Karim Musa) alterna la carriera da stand up comedy del web a quella di streamer ludico sul canale YotobiGames, spesso in collaborazione con Il Gatto sul Tubo (Marco Gattuso).  

Chi scrive adora Kenobit (Fabio Bortolotti), musicista chiptune, traduttore, carriera da recensore cartaceo e content creator di alta qualità. Orientato ad un pubblico che sta tra i venti e gli -anta, Kenobit rielabora il mondo del retrogaming, togliendogli di dosso la nostalgia e una certa ideologia conservatrice. Al di là di una quantità di ospiti sempre interessanti e più meno frequenti (per citarne uno, il Paolo Paglianti ex direttore di Giochi per il Mio Computer) il lavoro di Kenobit è un’operazione corale, all’interno del progetto Kenobisboch, in collaborazione con Andrea “Bisboch” Babich (giornalista e narrative designer per Mario + Rabbids Kingdom Battle) e Antonio Bellotta (esperto di hardware).

Fabio Bortolotti, in arte Kenobit

Fabio Bortolotti, in arte Kenobit | https://www.instagram.com/_kenobit

In un contesto di creator “adulti” è inevitabile citare Aligi Comandini, noto come Pregianza. Ex Spaziogames, oggi Multiplayer, ma vale seguirlo soprattutto per i suoi appuntamenti più o meno quotidiani su Twitch e rileggerlo nei vecchi articoli pubblicati sul caro vecchio Prismo (progetto editoriale che durò poco, ma prezioso). Altri critici “di peso” divenuti content creator sono, per dirne altri due, Gianluca “Ualone” Loggia e Francesco Serino, che hanno da tempo aperto i loro canali Twitch personali.

A proposito di progetti editoriali, negli ultimi anni in Italia si è sviluppato una critica videoludica militante, segno di una certa maturità dei tempi: Deeplay, The Shelter sono due nomi di un recente passato dedicato ad analisi videoludiche fortemente legate alla società e alla politica.  Gekidemu è invece un progetto Youtube dedicato ai “videogiochi dimenticati”, per lo più giapponesi. Ludica, diretta da Gilles Nicoli, è un centro di studi sui videogiochi aperto a tutti gli appassionati. 

Progetti che fanno meno numeri dei due portali più letti a tema videoludico, Everyeye e Multiplayer, progetti che raccontano un settore, quello dell’informazione videoludica, in mutamento: basta dare un occhio ai loro palinsesti quotidiani su Twitch.

L’elenco dei content creator, tra Youtube e Twitch, è lunga e citarli tutti trasformerebbe l’articolo in una lista della spesa (non ho volutamente citato i più famosi a livello di visualizzazioni, ma potete immaginarli). 

Come sta il mercato videoludico italiano?

L’industria dei videogiochi in Italia per circa trent’anni è stata composta di nomi più o meno piccoli. Si contano, certamente, delle eccezioni.

Una su tutte è quella di Simulmondo, software house fondata alla fine degli anni ‘80 a Bologna, legata alla figura del game designer e imprenditore Ivan Venturi.

Per parlare degli ultimi tempi riprendiamo tra le mani il saggio Il Videogioco in Italia, nello specifico con un intervento di Gianluca Balla, il quale sottopone in analisi quattro aziende per descrivere il quinquennio produttivo 2015-2019: Milestone, Tiny Bull Studios, LKA e Trinity Team. 

Milestone è ormai un’eccellenza nel genere dei racing game (la serie di MotoGP, per dirne una) e ha sede a Milano. È l’unica azienda videoludica italiana (oltre a Ubisoft Italy) a superare il centinaio di dipendenti. Delle quattro è l’unica a sviluppare AAA (tripla-A), prodotti ad alto budget, gli equivalenti di un film hollywoodiano se volessimo fare un - azzardato - paragone col Cinema.

La toscana LKA è degna di nota per The Town of Light, avventura ambientata nell’ospedale psichiatrico di Volterra, tratta dai lavori accademici del professor Luca Dalcò.

C’è materiale psicologico anche nelle creazioni dei torinesi di Tiny Bull Studios: Blind è un thriller che ti mette nei panni di un non vedente.

Trinity Team, di Bologna, si fatta conoscere per Bud Spencer & Terence Hill: Slaps and Beans: un platform alla Cadillac And Dinosaurs che è un caso di marketing di successo: raccolse più di 200 mila euro su Kickstarter nel 2018.

C’è una forte eterogeneità nell’ultima produzione ludica italiana. Tanto per fare qualche nome: Riot (IVI Production) è un simulatore di rivolta civile, Hard Times (Radical Fiction) ti mette nei panni di un senzatetto, The Textorcist: The Story of Ray-Bibbia (Morbidware) è un arcade nel quale interpreti un esorcista di borgata romana, Wheels of Aurelia (Santa Ragione) è un road trip ambientato nel 1978 sulla via Aurelia, Football Drama (Open Lab Games) parla di calcio in modi nuovi, rispetto ai soliti manageriali… Ci si ferma qui, che la lista è lunga.

Di fronte ad una eterogeneità di idee e di design, sia gameplay che narrativi, e di un’industria fatta di biografie aziendali diverse tra loro si evidenzia quella che Balla definisce una “omogeneità delle strutture presenti sul territorio”: piccole imprese, pochi dipendenti (e pochi soldi).

I numeri parlano di un mondo che deve diventare grande, secondo uno studio dell’AESVI (Associazione di categorie dell’industria dei videogiochi) su 127 aziende solo “il 17% dichiara di avere al proprio interno più di 11 addetti, mentre il 35% delle imprese conta un massimo di due professionisti.”

Inoltre, l’azienda cambia taglia seguendo la ruota di vita dei suoi progetti: assume quando si sviluppa, chiude contratti a lavori conclusi.

Nonostante un’industria ancora zoppicante c’è sempre più interesse nei confronti del medium, sempre più voglia di raccontarlo. E infatti è uscito qualche giorno fa Game of The Year, diretto da Alessandro Redaelli (Funeralopolis), primo lungometraggio che cerca di mostrare il fare di videogiochi in Italia. Ai trentenni tossici di una periferia milanese, protagonisti di Funeralopolis, si sostituiscono sviluppatori, streamer, content creator e gamer (più o meno) professionisti. Il documentario fa parlare i suoi protagonisti, richiedendo allo spettatore un’attenzione doppia: cogliere le storie dei singoli protagonisti, i loro intrecci, ma soprattutto capire le motivazioni che li guidano. C’è un fermento tentacolare, di eterogeneità estrema: da una parte si racconta di Francesca e Giuseppe fondatori della piccola Yonder, che vogliono sviluppare videogiochi di notevole spessore filosofico, dall’altra delle imprese stakanoviste di Attrix (Mattia Attice), twitcher che passa ormai gran parte della sua vita davanti una webcam. Nel mezzo la fauna assurda, semi-raccontata, decifrabile solamente se “si fa parte del giro”: il sopracitato Sabaku che pare un messia del nerd-vania, Kenobit che sprigiona la techno da un gameboy, poi il racconto dell’infinito, grottesco, sviluppo di Blood Opera: Crescendo (trama: un thriller investigativo, Europa del diciottesimo secolo, un killer che trasforma le sue vittime in strumenti musicali).

Il medium videoludico si mescola all’emotività della crescita: fare videogiochi non è un business, è un desiderio che nasce durante l’adolescenza. Ma senza un business rimane assente la possibilità di renderlo un lavoro e, attorno alla fede, la fatica e l’amore del videogioco un’industria si struttura. Il racconto corale sembra voler mostrare questa voglia di far parte di un mondo: Matteo Corradini (The Pills, Una Pezza di Lundini) che scrive i testi di The Textorcist (sviluppato con Diego Sacchetti) perché vuole entrare nel mondo dei videogiochi non come fruitore, ma come parte attiva, così come è parte attiva la figura dello streamer Attrix, ponte di collegamento tra il pubblico e l’industria, evoluzione spazio-temporale dell’amico che conosceva a menadito ogni cabinato nel bar del quartiere. 

In GOTY il mondo degli e-sport è raccontato come quello che è a tutti gli effetti, una macchina da soldi guidata da un esercito di adolescenti. La storia di Reynor (Ricardo Romiti), durante la produzione quindicenne, è un po’ il senso di tutto il documentario: c’è una sorta di poesia nel vederlo vincere la finale di Fall Championship 2000, torneo a tema Starcraft II. Reynor è un talento nato, l’equivalente calcistico di Maradona. Ciò che si vede nel documentario è l’antipasto di quello che sarebbe successo un anno dopo: la vittoria al campionato mondiale Intel Extreme Masters 2021. Due aneddoti: primo non sudcoreano a vincere il premio e sedici anni di vita.

Il destino di Reynor è l’eccezione nel documentario di Redaelli, dove in un mare magnum di diversità i protagonisti condividono la difficoltà di un percorso di crescita, formazione e consolidamento, bloccante e complesso: la bellezza di essere pionieri.

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Diego De Angelis

è un programmatore informatico e da anni scrive sul web. Ha collaborato con Vice, Esquire, UltimoUomo e altre riviste scrivendo di cultura popolare, questioni sociali e scienza.

Pubblicato:
02-07-2021
Ultima modifica:
05-07-2021
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