Continuo e discreto
Italia | Pensiero
Il nuovo saggio di Paolo Zellini è un concerto di elementi grandiosi e remoti. Non solo matematica, ma riti, filosofie e demoni di ogni tempo. Una lettura.
Gli Xenobot riaprono il dibattito sulla vita artificiale. Gli esseri viventi sono i soggetti-oggetti per eccellenza della politica. Cosa può cambiare se subentrano anomalie di difficile classificazione?
Regolare il rapporto fra Uomo e Macchina, questo è sostanzialmente uno dei grandi temi del nostro tempo. Il dibattito è ancora apertissimo e la discussione spaziosa e complessa: sono molteplici i saperi chiamati ad accogliere questa sfida, dalla politica alla tecnologia, dall'etica all'economia, dalla filosofia all'informatica.
Una certezza fondamentale continua a guidare questa indagine: l'uomo è uomo, la macchina è macchina, l'umanità è una questione biologica, la robotica invece tecnica. Sembra scontato, ma è un punto di partenza importante, poiché già in molti casi dirimente, nonché piano di discussione e di partenza per filosofie radicali che si prefiggono di annullare questo assioma.
La vita d'altronde è materia politica per eccellenza, piano di incontro e scontro di poteri e gerarchie, destinataria finale di qualsiasi azione compiuta. La prerogativa di decidere cosa sia vivente e cosa non lo sia è un potere enorme, ancestrale. É ciò che nella mitologia distingue le divinità dagli uomini, ciò che oggi mantiene l'umanità al vertice della biosfera.
Le iperstizioni, come insegna il filosofo britannico Nick Land, non sono altro che squarci di futuro capaci di materializzarsi nel presente, un'anticipazione contemporanea del divenire.
Gli Xenobot, potrebbero essere classificati come tali, in quanto fra i primi agenti a poter mettere in crisi una visione binaria della vita: organismi semi-sintetici, progettati tramite dei sofisticati software di calcolo e sostanziati a partire da cellule ectodermiche e miocardiociti, derivate dalle cellule staminali dello xenopo liscio, una particolare specie di rana le cui peculiari caratteristiche biologiche da anni si dimostrano incredibilmente funzionali alla ricerca scientifica.
A dicembre dello scorso anno, un gruppo di ricerca congiunto dell'Università del Vermont e della Tufts University ha reso pubblica la notizia che alcuni esemplari abbiano elaborato autonomamente un proprio ciclo riproduttivo. Si tratta di microrganismi grandi meno di un millimetro nei quali informatica e biologia hanno uguale importanza: la programmazione permette di istruire gli organismi a svolgere svariate attività, dai semplici spostamenti ad azioni di complessità maggiore come il trasporto di altri elementi o la cooperazione in gruppo per il raggiungimento di un fine comune.
Mentre la “mente” è quindi alimentata attraverso un algoritmo evolutivo, le cellule ectodermiche costituiscono lo scheletro degli Xenobot e i miocardiociti mimano un rudimentale apparato muscolare, capace di imprimere il movimento.
Ma la questione più affascinante risulta proprio essere la loro classificazione – o non classificazione – biologica.
A detta degli stessi scienziati che vi hanno lavorato, gli Xenobot non sono classificabili né come robot tradizionali, né come nuova specie animale.
Essi vengono definiti come oggetti artificiali che sono organismi viventi e programmabili. Una vita non vitale. Una definizione complessa, probabilmente tautologica, che, maturata in un laboratorio, manca della necessaria aspirazione ad uno sguardo più ampio sulla società. Manca di pragmatica.
La pragmatica è una branca settoriale della linguistica, interessata alle applicazione contestuali della lingua. Sostanzialmente di come il logos si faccia sarx, di come il linguaggio si faccia azione concreta. In particolare lo strumento più utile a scendere in profondità delle questioni legate agli xenobot è una pragmatica politica, nella quale il secondo dei due termini è inteso nell'accezione più vasta possibile, quella delle relazione e delle gerarchie del potere.
In quest'ottica la definizione biologica degli enti risulta essere un aspetto fondamentale della costruzione e della percezione della realtà, nella misura in cui è il vivente il soggetto-oggetto della politica, del potere.
Va da sé come una non-vita non rientri neppure nelle riflessioni legate alle dinamiche relazionali della società.
Gli xenobot giacciono invece su una linea sottile, un limes biopolitico, che in assenza di pragmatica risulta impossibile da de-codificare.
Innanzitutto sarebbe opportuno riflettere sugli assiomi che l'umanità decide di assumere nella codificazione del “biologico”.
Un'entità programmata a livello informatico, concludono i ricercatori, non può certo definirsi viva. Eppure, la capacità riproduttiva che gli xenobot dimostrano aver maturato è proprio una delle prerogative di base del vivente. Nel caso essa non fosse più riconosciuta quale segno indistinguibile di un organismo propriamente vivo, decadrebbe in un sol colpo il riconoscimento, a lungo richiesto anche dalla specie umana, di politicizzare la propria capacità di riprodursi: di inserirla all'interno di una logica di potere, possibilmente da mettere in discussione.
La stessa idea che l'ibridazione fra tecnologia e massa biologica necessiti di una nuova qualificazione, non all'interno della bio-sfera, ma all'infuori di essa, sembra spazzare via almeno trent'anni di speculazione filosofica.
Donna Haraway, biologa e filosofa, è fra le pioniere del cosidetto “cyber-femminismo”, una corrente di pensiero che affonda le sue radici nella de-costruzione del sistema patriarcale tramite l'innesto della tecnologia.
Elemento centrale della sua filosofia è infatti il cyborg: un essere che proprio in virtù della condizione di simbionte fra tecnica e natura in qualche modo “hackera” le costruzione politiche e l'impostazione dualistica sulle quali esse si reggono.
L'impianto tecnologico nel vivente è la chiave di sublimazione di quest'ultimo, capace di fuggire dalle classificazioni del potere ed evolvere ad un livello non-binario.
Per la Haraway il cyborg diventa l'attore bio-politico per eccellenza: la condizione di anomalia non è, come nel caso degli xenobot, l'impedimento a riconoscere la propria condizione di vivente, al contrario è la manifestazione politica più radicale che si possa mettere in atto.
Proprio l'alterità del cyborg, la sua capacità di configurarsi a seconda del contesto in cui agisce, la propria non specificità ne è la forza principale. D'altronde l'orizzonte disegnato dalla Haraway è quello dello Chtulucene: una nuova era bio-geologica nella quale la simbiosi diviene l'elemento fondamentale per ovviare alla profonda frattura che l'umanità ha creato con il resto del mondo naturale.
Essa si configura infatti come l'epoca delle relazioni interdipendenti, dell'estrema diluizione delle categorie biologiche e politiche, il passaggio da un ecosistema di individui ad un ecosistema di ecosistemi.
La fuga dall'antropocene si realizza così nella speculazione della filosofa statunitense attraverso una continua de-strutturazione del reale così come percepito fino ad oggi, da raggiungere mediante quella che sembra essere un'evoluzione tridimensionale del rizoma deleuziano: il Pensiero cosidetto tentacolare, proprio come la bestia lovecraftiana da cui Haraway mutua il nome per il suo Chtulucene.
Il biologico, il vivente, assumono per Haraway una profonda pragmaticità. Esse non rimangono categorie, ma soggetti costituenti di una nuova epoca e di una nuova struttura sociale. Una riflessione che potrebbe essere decisamente aperta a partire proprio dagli Xenobot, ma l'estremo antropocentrismo vigente ne continua ad influenzare la lettura.
Essi sono infatti prodotti a partire da staminali di origine animale ed è quindi fin troppo facile, con la mentalità attuale, de-classificare la loro componente biologica in favore di quella tecnologica.
Ma se le cellule innestate dal software di programmazione fossero state di origine umana, l'attenzione al fenomeno sarebbe stata la stessa? La classificazione ad “oggetti del terzo tipo” così istantanea?
Per rispondere alla domanda posta in partenza, oggi per il senso comune viene considerato vivo ciò che è umano. Si parla di una vitalità politica, divergente da quella biologica, ma potenzialmente influenzante. Assumersi in quanto umanità la possibilità di decidere cosa sia vivo, nell'ambito di una pragmatica politica è il fattore principale che ha condotto all'antropocene.
La supremazia dell'uomo si basa proprio sulla sua condizione di vivente: al pari, sì, degli altri esseri viventi, ma con la considerazione latente di sé come un gradino sopra gli altri.
Se per il resto degli organismi biologici la vita è elemento generico, nell'uomo essa viene elevata a singolarità, a strumento eccezionale, si costruisce una separazione fra Vivente e viventi.
Tale visione è quella che ha permesso all'umanità di arrivare ad essere l'agente controllate e modificante dello spazio, facendo valere una vitalità superiore, militante, sul resto del mondo naturale.
Gli Xenobot appaiono, anche per come riportati nella vulgata mainstream, un vezzo scientifico, ma possono essere i primi elementi da cui far discendere una pragmatica della vita, da cui partire per prepararci ai futuri possibili.