La vecchiaia, l’osceno torna in scena - Singola | Storie di scenari e orizzonti

La vecchiaia, l’osceno torna in scena

L’ultimo grande film di Clint Eastwood, Cry Macho, sabota la retorica della terza età al cinema. È una vecchiaia vera, ostentata a viso aperto: il tabù della senilità e i registi che l'hanno sfidato.

Emanuele Di Nicola

giornalista e critico cinematografico, è redattore della rivista di cinema “Gli Spietati”. Collabora con varie testate (“Cineforum”, “Nocturno”, “Cinecritica”). Ha scritto saggi su Ken Loach, i fratelli Dardenne, Wiseman, Fincher, Ozon, Dumont. È autore de La dissolvenza del lavoro. Crisi e disoccupazione attraverso il cinema (2019) e La carne e l’anima. Il cinema di Abdellatif Kechiche (2021).

"Non c’è una cura per la vecchiaia", dice Clint Eastwood in Cry Macho, quando lo invitano ad esaminare un cane anziano, vista la sua abilità con gli animali. Una battuta che resterà cult: verrà citata, storicizzata, presa a simbolo dell’ultima fase della carriera dell’attore-regista. La verità è che per la vecchiaia al cinema non c’è neanche cittadinanza: è un tabù, un'oscenità, in senso letterale, un fuori scena. O meglio: il contemporaneo inforna le sue rappresentazioni di personaggi anziani, ma li inscena attraverso una focalizzazione esterna: la vecchiaia vista dai non vecchi. Ecco perché l’ultimo film di Eastwood, Cry Macho (nelle sale italiane dal 2 dicembre), sabota radicalmente la messinscena della senilità: perché è girato da un regista di 91 anni che recita nella parte del protagonista, si mette in campo, ostenta il suo corpo in modo chiaro e consapevole.

È la storia di Mike Milo, già campione di rodeo e addestratore di cavalli, che accetta l’incarico del suo ex capo, riportare a casa il figlio che vive con la madre messicana tra alcool, eccessi e criminalità: è tratto dal romanzo omonimo di N. Richard Nash del 1975, in cui il protagonista si trova a riposo ma non è certo novantenne, l’età viene considerevolmente aumentata nella versione di Eastwood. E, soprattutto, il cineasta non fa niente per nascondersi: non pare più giovane, sembra esattamente quello che è, non anziano ma “ultra-vecchio”, avendo inaugurato la decade che porta verso i cento anni. Li dimostra tutti: lo vediamo nel corso del racconto magro e ricurvo, la tradizionale camminata di Eastwood affronta la prova della senilità a viso aperto.

Certo, gli effetti speciali permettono a Mike Milo di battersi in una scazzottata o domare cavalli selvaggi grazie al lavoro degli stuntman. Ma niente viene nascosto, tutto è esposto: gli altri lo chiamano “vecchio” a più riprese, proponendo l’età come il principale elemento connotativo del protagonista. Il nome è anche un fatto: è vecchio. Perché quella di Eastwood, seppure cucita sulle esigenze drammatiche, è una vecchiaia vera: senza filtri, senza trucco se non quello scenico, senza edulcorazione. Una traccia simile era già presente nel precedente The Mule, in cui Clint svolgeva l’attività di corriere della droga tra Stati Uniti e Messico - insospettabile proprio per l'età -, ma qui il discorso diviene molto più radicale perché il tempo scorre inesorabile: il miracolo del corpo che sta ancora in piedi, del vecchio leone che continua a ruggire, ripropone finalmente sul rettangolo dello schermo la questione onesta e sincera della vecchiaia. In sé e per sé: un’occasione per rileggere la propria esistenza reale e quella cinematografica, in vista della fine.

Lo segnala il magnifico titolo Cry Macho che rovescia la percezione classica del personaggio eastwoodiano, anche i maschi piangono e il machismo è sopravvalutato. Come fece John Ford ne Il grande sentiero (1964), il suo film dalla parte degli indiani. E, inevitabilmente, ogni fotogramma abitato da Clint Eastwood ultranovantenne diventa un corpo a corpo con la morte: in cerca della pacificazione prima dell’ultima dissolvenza.

Curiosamente (ma esiste davvero il caso?), una riflessione simile viene costruita negli stessi giorni da un altro cineasta decisivo dell’oggi: David Cronenberg nel cortometraggio The Death of David Cronenberg, disponibile gratuitamente in rete. Il regista di Crash, giunto a 78 anni, si spinge fino alla messinscena della propria scomparsa: in 57 secondi vede se stesso disteso nel letto, ormai spirato, si posiziona nella stessa posa e si sovrappone al suo io morto, riconciliandosi così con la propria immagine defunta. Un’ipotesi per guardare la morte in faccia e “fare pace” in vista del momento definitivo. Ancora una volta con onestà: ma non è sempre così. Anzi quasi mai.

Di solito la vecchiaia sugli schermi, grandi e piccoli, viene rappresentata attraverso una strategia di edulcorazione, con una retorica che tende a rendere accettabile e consolatorio il naturale decadimento del corpo. Una naturalità appena sabotata nel film più recente di M. Night Shyamalan, Old, che velocizza l’invecchiamento dei suoi personaggi facendoli vivere in un giorno una vita (e una morte): modo per spaccare l’ovvio, per elidere il già visto, per uscire dallo stereotipo a proposito delle età. Un altro modo è il recente il recente The Father di Florian Zeller (2020), Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e per il migliore attore, Anthony Hopkins: storia di un uomo colpito da Alzheimer che viene raccontata totalmente in focalizzazione interna, ovvero aderendo alla sua mente, con le sfasature percettive e le difficoltà cognitive che lo rendono un mind game movie, chiamando lo spettatore a stabilire cosa è vero e cosa è solo presunto nella testa e nello sguardo del malato. In molti casi, invece, dietro l’obiettivo troviamo semplicemente registi non anziani che affrontano una fase ancora lontana dalla loro condizione: si prenda a titolo di esempio Ella & John di Paolo Virzì (2017), il racconto del viaggio in camper degli ottantenni del titolo (Helen Mirren e Donald Sutherland), in fuga dalle cure mediche che renderebbero un calvario l’ultima parte della vita, a causa della demenza di lui. Non si vuole qui criticare Virzì: serve per sottolineare come un regista, nato nel 1964, scelga di “dolcificare” la rappresentazione della terza età coi suoi problemi, che non sono neanche nominati - non si dice mai la parola Alzheimer - preferendo l’adozione di un registro artificioso, drammatico ma tutto sommato rassicurante a proposito di quello che succede dopo gli ottanta. Quando un autore anziano parla (anche) di sé, di ciò che conosce, le cose cambiano radicalmente.

Pochi sono i veri, grandi vecchi che hanno rappresentato la loro età al cinema. Una di questi è stata Agnès Varda, nome imprescindibile della Nouvelle Vague scomparsa nel 2019 a 91 anni: nei suoi ultimi titoli si è messa in scena in modo solare, con orgoglio, occupando spesso la parte della protagonista (molti titoli sono disponibili su MUBI). Ne Le spiagge di Agnès (2008, a 80 anni) ha ripercorso la sua vita e carriera cinematografica all’insegna di ciò che ha sempre amato, la spiaggia, luogo fondativo del cinema francese; in Visages Villages (2017, a 89 anni) ha intrapreso un viaggio con il fotografo e street artist JR nei piccoli centri della Francia, con lo scopo di incontrare le persone e realizzare le gigantografie fotografiche dell’artista, intavolando così un continuo e implicito confronto generazionale tra un giovane e una “vecchia”; in Varda par Agnès (2019, a 91 anni) ha percorso l’intera esperienza nel cinema, seduta su un palco, davanti a un pubblico, tra frammenti di film, opere realizzate e solo sognate, in una sorta di “Agnès secondo lei”. Senza nulla che nasconda l’età.

Nella sua produzione sorprendente e vitale fino all’ultimo (Varda presentò il film del 2019 in conferenza stampa alla Berlinale pochi giorni prima della morte), ciò che colpisce, al contrario di Eastwood, non è una riscrittura di sé che cambi le caratteristiche del personaggio storico, bensì la sensazione di levità straordinaria: in questi film sulla sua vita non c’è mai l’ombra della morte, non si affaccia dietro l’angolo, perché l’ironia e la leggerezza di Agnès Varda si presentano davanti alla fine col sorriso. Perfino l’immagine che chiude il suo cinema, la regista che scompare in una tempesta di sabbia, è una sparizione che non suona esiziale, sembra avere ancora qualcosa da dire. “Sono una femminista gioiosa”, disse Varda in quell’ultimo incontro, e quella “gioia” si riversa nei tasselli della sua filmografia, impartendo una struggente lezione di serenità anche nel tardo autunno.

 


Un artista miracoloso è stato Manoel de Oliveira. Il maestro del cinema portoghese, scomparso nel 2015 a Porto a 107 anni, ha proseguito l’attività cinematografica fino all’ultimo, fino al paradosso: il cortometraggio O Velho do Restelo, girato nel 2014 a 106 anni, di breve durata solo per la scarsità dei finanziamenti che non permisero di renderlo lungo. La produzione, scritta e preparata nell’arco dell’intera esistenza, ha visto un’impennata proprio intorno al secolo di vita: tra i molti titoli c’è Lo strano caso di Angelica (2010, a 102 anni), in cui il cineasta inscena la parabola fantasmatica di un giovane fotografo che si innamora di una ragazza morta (appunto); oppure l’ultimo lungometraggio Gebo e l’ombra (2012, a 104 anni), adattamento dell’omonimo dramma teatrale di Raul Brandão del 1923, dove un contabile e la sua famiglia affrontano la sparizione del figlio, divenuto criminale. De Oliveira, inventore di un nuovo modo di girare, di una frontalità strappata al teatro e immessa nel cinema, conduce il film in un dialogo di chiaroscuri con l’ambiente rischiarato principalmente a lume di candela.

E inutile dire che l’ombra è proprio quella: l’ombra della morte che si avvicina, e che il regista sostiene in un corpo a corpo fatto di rappresentazione cinematografica. Caso unico nella Storia, de Oliveira si mantenne sul set fino all’ultimo, senza delegare, regalando varie immagini di making of in cui lui stesso, dopo i cento anni, dirige attori come Michael Lonsdale e Claudia Cardinale: un vero e proprio guanto di sfida lanciato alla mietitrice, un appuntamento rimandato che attraverso la pratica cinematografica viene posticipato il più al lungo possibile. Sino all’ultimo fotogramma dell’ultimo film.

Il documentario, da parte sua, ha sempre frequentato la vecchiaia. Grazie al ricorso alla non finzione, in alcuni casi, ha toccato risultati di profonda verosimiglianza, all’insegna della possibile sovrimpressione tra chi stava girando e la materia rappresentata. È il caso del più grande documentarista vivente, Frederick Wiseman, nato nel 1930. In Monrovia, Indiana (2018) realizza un affresco totale della piccola città, in 143 minuti che la rigirano tra le mani come una sfera mostrandola da ogni angolazione possibile: e soprattutto chiude con la ripresa di un funerale, una funzione religiosa per salutare un membro della comunità che prevede le esequie e poi l’interramento della bara. Un regista a 88 anni filma tutto questo: guarda la morte in faccia, non la teme, sa che fa parte della vita.

Così come l’inevitabile conseguenza della senilità viene inquadrata dal documentarista cinese Wang Bing, un altro dei maggiori, in Mrs. Feng, vincitore del Pardo d’oro a Locarno 2017: la signora Feng è affetta dal morbo di Alzheimer (che qui sì, è chiamato col suo nome) e si appresta alla fine. L’obiettivo la segue in quegli istanti e documenta il percorso verso la morte. Pone un problema di etica delle immagini, quanto è lecito osare e dove è opportuno spingersi nella rappresentazione della vecchiaia e di ciò che viene dopo: d’altronde c’era già tutto in Nick’s Movie di Wim Wenders (1980), in cui il cineasta tedesco fa visita al grande regista Nicholas Ray malato di tumore, in fase terminale, che accetta di passare gli ultimi giorni davanti alla macchina da presa. Un dubbio etico, certo, ma anche una testimonianza rara e straordinaria sui momenti che portano verso la fine della vita. Mostrando l’inevitabile ma, allo stesso tempo, rispettando il suo mistero.

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Questo articolo è parte della serie:  Visioni
USA - 2021
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Emanuele Di Nicola

giornalista e critico cinematografico, è redattore della rivista di cinema “Gli Spietati”. Collabora con varie testate (“Cineforum”, “Nocturno”, “Cinecritica”). Ha scritto saggi su Ken Loach, i fratelli Dardenne, Wiseman, Fincher, Ozon, Dumont. È autore de La dissolvenza del lavoro. Crisi e disoccupazione attraverso il cinema (2019) e La carne e l’anima. Il cinema di Abdellatif Kechiche (2021).

Pubblicato:
27-10-2021
Ultima modifica:
03-12-2021
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