L'ultimo videogioco della giapponese FromSoftware è stato uno straordinario successo di pubblico e di critica. Un'analisi a partire dalla sua trama.
Arrivare al Castello di Mantorosso come attratti da una forza inesorabile: nella tremenda regione di Caelid, un inferno di fiamme e pestilenza, arsura e mutazioni, paiono abitare solo mostri e reietti, eppure ogni personaggio, ogni strada e ogni portale conduce a quella rocca di arenaria dalle mura tozze. Varcarle, e trovare il castello sgombro di soldati, popolato solo da schiavi e bestie, e nel silenzio irreale seguire il richiamo di un canto sacro per unirsi al festival del massacro, l'unica cosa che resta da fare. E scoprire che il castello è solo l'anticamera di un deserto grande quanto un continente, un anfiteatro dove precipitano meteore.
Scivolare sotto un ponte in rovina (qui tutti i ponti lo sono) e percorrere un sottile lembo roccioso, pericolante, sgattaiolando dietro l'imponente Grantempesta finché davanti agli occhi si apre lo sconfinato panorama di Liurnia, regione di laghi e incantesimi. Sapere già che, in quegli acquitrini all'apparenza fatati, si nascondono le ennesime minacce di un mondo ostile, ma godersi la pace e la vista, almeno per quell'attimo, insieme al focolare di un mercante, che profuma di casa.
Scalare la mummia pietrificata di un drago tra i marmi bianchi di Leyndell, capitale solitaria, e distinguere per la prima volta le rughe sulla corteccia di quell'albero gigantesco che domina ogni scorcio dell'Interregno; capire che non è uno spettro dai contorni dorati ma un albero vivo, un tronco segnato dai millenni ma ancora pulsante e irto di spine.
Ricevere udienza nelle sale serpentine di Lord Rykard, assisterne al disgustoso trionfo e al morboso declino. Scoprire l'impossibile volta celeste della Nokron sotterranea, stelle rubate a epoche ancestrali e incastonate sul soffitto di un pozzo. Seguire il tracciato di un astro caduto e viaggiare sempre più in basso, verso il crogiolo della terra, fino a incontrare un volto nelle radici.
Venire sbalestrati fra le macerie di Farum Azula, città sospesa nell'uragano, e trovare un istante eterno, fuori dal tempo, nel cuore di quell'uragano – per ripristinare la morte, il motore che tiene vivo il tempo stesso.
Oppure il semplice senso di gravità e disorientamento ispirato dai quadri più cupi e contorti, debitori di Berserk (i cimiteri di spade che punteggiano il continente paiono un commosso tributo a Kentaro Miura), dei paesaggi infernali di Hieronymus Bosch, dell'orrore distopico dell'artista polacco Zdzisław Beksiński. La meraviglia e la vertigine dei tanti panorami ermetici, surreali, talvolta liquidi come quelli di Salvador Dalì e talvolta squadrati come quelli di Giorgio De Chirico, fino ad arrivare alle architetture sospese (“L'isola”) e scomposte (“Venezia senz'acqua”) di Fabrizio Clerici: una delle sue più celebri coppie di dipinti, “Corpus Hermeticum” e “Un istante dopo”, ritraggono significativamente un anello sospeso prima integro e poi frantumato, del tutto simile alle macerie gravitanti di Farum Azula.
Il bello di un videogioco come Elden Ring è anche questo: ciascun giocatore, al termine del viaggio, avrà maturato un'esperienza diversa e porterà impressi nella memoria momenti diversi, forse nemmeno inclusi fra questi, ciascuno legato alla propria sensibilità, al proprio sguardo, allo sviluppo dell'avatar digitale e all'immedesimazione con esso. Sono momenti catartici dove il medium videogioco dimostra tutta la sua potenza, le altezze vertiginose che sa raggiungere, senza nulla da invidiare alle altre forme artistiche: il filtro dell'intermediazione è caduto, il controller nelle mani non pesa più nemmeno un grammo, le spalle del personaggio inquadrato in terza persona sono le nostre stesse spalle, e con i suoi occhi guardiamo un mondo dove il prossimo colpo che sferreremo o incasseremo, lascerà un segno concreto sulla nostra pelle. Sono anche momenti che non nascono per caso, o per una fortunata intuizione estetica: vengono costruiti mattone per mattone, tramite accenni, indizi, e difficoltà da superare.
Se i precedenti titoli di FromSoftware, più compatti nelle dimensioni, offrivano una minore gamma di situazioni del genere – ma non certo meno intense, se pensiamo alla magnifica, terrorizzante apparizione di Anor Londo nel primo Dark Souls –, Elden Ring si mostra particolarmente abbondante sotto questo aspetto. Unendo in un tentativo coraggioso e inedito le consolidate meccaniche dei souls allo stile dei videogiochi open world, tipicamente aperti ed esplorativi, FromSoftware ha realizzato un mondo geograficamente enorme, ma che soprattutto dà la costante sensazione di trovarci in un mondo vivo, ricco e vero. Potrà apparire vuoto a chi si aspettava una tradizionale mappa da open world, traboccante di segnalini e missioni secondarie (banalmente, di “cose da fare”), ma in verità è un mondo coerente. Il mistero, l'ermetismo dell'interfaccia, l'oscurità della narrazione e la pericolosità di nemici e ambiente danno peso e significato all'esplorazione: ogni incontro, ogni scontro e ogni scoperta guadagnano valore e costruiscono quel senso di avventura che rende un'esperienza virtuale esistenzialmente significativa. E se l'Interregno appare vuoto è perché, nonostante la magnificenza dei suoi scorci, è un luogo difficile da abitare, a tratti respingente. Ma, di nuovo, si tratta di un vuoto ingannevole. Le vaste radure erbose di Sepolcride o le distese ghiacciate del nord, apparentemente deserte, sono abitate da una cultura, una lore, che si rifrange nei tanti mondi dentro al mondo di Elden Ring, come in un gioco di specchi che allestisce un frattale in infinita espansione, un costante dialogo tra microscopico e macroscopico. FromSoftware ha consapevolmente accentuato il concetto tramite i legacy dungeon, aree isolate dal mondo aperto circostante ma perfettamente fuse nel suo contesto, dove recuperare la classica meccanica esplorativa del genere metroidvania/souls fatta di corridoi, scorciatoie e passaggi sbarrati. Si tratta di castelli, accademie o intere città, comunità chiuse da elementi geografici (un altopiano, un vulcano, un uragano eterno), culturali (i giganti ritiratisi al nord dopo la sconfitta, il culto sognante e decadente dell'Albero Sacro) o individuali (la bramosia contagiosa di Godrick, Mogh o Rykard). Ma una volta uscito dai corridoi e tornato a respirare l'aria aperta, il giocatore non si porterà dietro soltanto la tacca sulla cintura di un altro nemico sconfitto; avrà aggiunto una nuova tessera nel mosaico del mondo, avrà sperimentato un altro sguardo su di esso.
Profondità, è questa la parola decisiva, perché un'opera come Elden Ring agisce su vari piani interconnessi. C'è il lato più schiettamente ludico ed entertaining, quello della sfida, perfezionare le statistiche del personaggio e l'abilità in combattimento fino a superare ogni boss – battere il gioco, come si direbbe secondo la filosofia arcade. Elden Ring è un videogioco che nasce per viaggiarci insieme, più che per essere battuto, ma tale approccio arcade non merita nessuno sguardo supponente, perché non sminuisce la ricchezza narrativa, anzi la potenzia dialogando con essa. Gameplay, estetica, narrazione, il tipico senso di difficoltà e di sfida, vanno tutti nella medesima direzione. Nei souls non è infrequente che un giocatore più orientato alla componente action e poco interessato alla trama finisca per innamorarsi, persino ossessionarsi con la storia dei boss che affronta, né che un roleplayer puro si addentri nei meandri del sistema di combattimento. Densità, questa è un'altra parola cardine, perché nel mondo di Elden Ring ogni cosa ha un suo significato, piccolo o grande che sia, e chi interiorizza questo concetto vive un'esperienza straordinariamente ricca. Talvolta la fa vivere anche agli altri, come il content creator italiano Sabaku no Maiku, al secolo Michele Poggi, che non a caso ha scelto di chiamare le sue blind run (una prima esperienza con il videogioco, in presa diretta e “alla cieca”) “L'Anima della Scoperta”: autentici viaggi condivisi, lunghi persino più di centocinquanta puntate come nel recente caso di Elden Ring, che rappresentano uno dei modi migliori per raccontare e comunicare i videogiochi, per fare cultura con essi, nel più ampio senso possibile del termine.
Grazie a profondità e densità, dunque, Elden Ring riesce a lasciare un segno indelebile nella storia dei videogiochi, forse a cambiarla irrevocabilmente, senza, a conti fatti, inventare niente. È una grande attestazione di maturità da parte del medium. Elden Ring fa scoppiare la nicchia in cui abitavano i souls (popolosa e affezionata, ma pur sempre una nicchia) per sconfinare nel mainstream e nella critica comparata, e lo fa restando in tutto e per tutto un videogioco. È consapevole ma non geloso delle proprie radici: sa bene che il modello souls nasce portando i metroidvania nella terza dimensione e potenziando l'elemento di roleplaying, e riesce ad abbinarlo a uno stile apparentemente inconciliabile, l'open world, con la maestria e la lucidità di chi sa cosa portarsi dietro e cosa abbandonare, di chi ha capito che combinare e interpretare, spesso, valgono più che inventare. Non attinge dal cinema, come fanno alcuni game designer di spicco quali Hideo Kojima o Neil Druckmann (The Last of Us). Nonostante si avvalga della collaborazione di uno scrittore come George R. R. Martin, Elden Ring non dà mai l'impressione di voler essere un romanzo, di voler essere qualcos'altro rispetto a un videogioco. Forte delle sue certezze, non si perde nemmeno in dilemmi filosofici: Elden Ring può ad esempio permettersi di ignorare e accettare alcuni di quegli stereotipi che potremmo chiamare giochismi (l'inventario infinito, raccogliere un fiore con la pressione di un tasto, gesti che tendono a dare sempre più fastidio all'immedesimazione del giocatore con l'aumentare del fotorealismo), interpretandoli come segni semplici ma essenziali di un alfabeto condiviso. Il risultato è un'opera spartiacque, sia nel discorso sui videogiochi, sia all'interno dei videogiochi stessi. Dopo aver vissuto la profondità del mondo di Elden Ring, come per Zelda: Breath of the Wild, è difficile tornare indietro a una certa idea canonica di open world, con l'interfaccia che guida per mano il giocatore, un'esperienza diluita dalle fetch quest, nemici superabili con la forza bruta, una mappa che invoglia a piantare bandierine anziché ispirare mistero e timore.
Mentre scriviamo, Elden Ring ha superato i sedici milioni di copie vendute, una cifra che ha sgretolato qualsiasi aspettativa di produttori e distributori, segnando il primo, vero successo mainstream di FromSoftware – uno sviluppatore di culto e di buone risorse, ma situato qualche gradino sotto rispetto ai colossi del settore. Come ogni successo, anche questo è dipeso da una serie di circostanze concomitanti, alcune ben studiate e altre più fortunate. La collaborazione con George R. R. Martin, pur lontano dall'apice di popolarità raggiunto ai tempi della serie HBO Il Trono di Spade, ha stuzzicato l'interesse di una platea più vasta, e il lungo percorso di sviluppo del gioco, complice l'attesa maturata dal precedente Sekiro (2019), ha tenuto acceso il motore dell'hype senza farlo andare fuori giri, come invece talvolta accade, stimolando anzi l'appetito degli appassionati. La curiosità di assistere al risultato dell'esperimento, questa improbabile fusione tra generi che prometteva di lanciare il modello souls verso nuove vette, si è combinata poi alla fame dei giocatori per titoli di rilievo. Fra la pandemia e la difficile reperibilità dei semiconduttori, che sta tutt'ora limitando produzione e distribuzione delle console di nuova generazione, nell'ultimo biennio l'industria videoludica ha rallentato il ritmo delle uscite. Elden Ring, insomma, è arrivato al momento giusto, incontrando tante attenzioni e poca concorrenza. La nuova formula si è anche rivelata particolarmente accogliente per i nuovi giocatori, quelli alle primissime armi con i titoli FromSoftware e che, tentando il primo approccio con un classico Dark Souls o Bloodborne, si sarebbero presto scontrati con la tipica difficoltà del genere rischiando di abbandonare il gioco per frustrazione. Difficile dire se Elden Ring sia più o meno “facile” degli altri titoli FromSoftware, perché il concetto stesso di “facilità” ha poco senso in questo contesto. Ma è certamente più malleabile, perché l'ampia libertà di costruzione ed esplorazione significa che nessun boss (o quasi) pone un muro invalicabile, ma si può setacciare il continente fino a diventare abbastanza forti, furbi o equipaggiati per superarlo.
Fin dai primi giorni dall'uscita, a fine febbraio scorso, Elden Ring è stato non a caso titolo prediletto dagli streamer di mezzo mondo, innescando una potente camera di risonanza. Non tutte queste esperienze videoludiche condivise hanno la stessa significatività o caratura, alcune seguono perlopiù una moda passeggera, ma di fronte a certe cifre una simile diluizione è inevitabile, e del resto, lo abbiamo detto, non esiste una ricetta su come fruire correttamente i videogiochi.
Di certo, lo sconfinamento di Elden Ring nel mainstream cambia le carte in tavola. C'è il rischio, ma è fatto comunque a qualsiasi mezzo artistico contemporaneo, che FromSoftware si senta ulteriormente legata a una “formula vincente” e che i già nutriti emuli del filone soulslike si facciano ancora più manieristi. Ma al tempo stesso, l'iniezione di popolarità (e denaro) permetterà a FromSoftware di gestire i progetti futuri con maggiore credibilità, risonanza e risorse, proseguendo un percorso di autorialità che, volendo, concede margine per scelte ambiziose. Si pensi a Death Stranding, con cui Hideo Kojima, al netto delle luci e ombre del titolo, ha messo in discussione l'idea stessa di “divertimento” in ambito videoludico introducendo meccaniche e concetti che oggi è diventato impossibile ignorare.
C'è anche la possibilità che altri sviluppatori, ispirati dal successo e dalle finestre aperte da Elden Ring, portino avanti il discorso in direzioni nuove e stimolanti. Anche perché, e ciò nulla toglie al suo impatto e ai suoi innumerevoli pregi, Elden Ring non è certo un gioco privo di difetti. E non poteva essere altrimenti, vista semplicemente la sua mole. Elden Ring è un videogioco massimalista, che vuole raccontare un intero mondo tramite un intrico di digressioni, rimandi e dettagli. Se fosse un romanzo potrebbe essere Infinite Jest di David Foster Wallace o I Buddenbrook di Thomas Mann (come intento e non contenuto, s'intende), oppure una lunga saga fantasy: opere così pesanti che devono reggersi su un'architettura importante, e nei punti dove poggiano le travi si aprono spiragli attraverso cui il lettore o il giocatore possono sbirciare il lavoro dell'autore nel suo aspetto più artigianale. Per esempio, nell'improvviso cambio di passo che il giocatore affronta nei Campi di Neve Consacrati (un'area sadica e infida, avvolta in una tormenta di neve e popolata da nemici particolarmente agguerriti) gli appassionati più enciclopedici hanno saputo scorgere la mano di Yui Tanimura, che deve aver preso il timone a quel punto dello sviluppo, noto per possedere una filosofia di game design diversa da quella del direttore creativo Hidetaka Miyazaki.
Per restare fra i titoli FromSoftware, Dark Souls, Bloodborne o Sekiro sono invece opere di stampo più minimalista, essenziali e massimamente precise come un racconto di Čechov o Raymond Carver. Hanno un'inquadratura più stretta, il percorso del giocatore è più confinato. Quando riescono bene, sono opere che restituiscono l'impressione di una sfera liscia, inscalfibile, e poco o nulla ci è dato intravedere dei suoi meccanismi interni. Tutto questo apre a interessantissime considerazioni critiche che ci portano a un altro punto chiave del discorso, e cioè che Elden Ring ha cambiato (o almeno potrebbe e dovrebbe cambiare, a seconda della prontezza delle parti in causa) il modo in cui parliamo di videogiochi.
Nei giorni del lancio avevano fatto scalpore gli altissimi voti riscossi dal titolo sulle principali riviste di settore, una media vicinissima al 100. Ma se consideriamo 10 o 100 la “perfezione”, in base alla riflessione che abbiamo appena formulato Elden Ring è “meno perfetto” di altri giochi. Se vogliamo invece dare più importanza alla ricezione, al vissuto che un videogioco costruisce nella sua community, al suo valore nel contesto storico, è chiaro che nulla di tutto ciò potrà rientrare in una recensione uscita prima ancora che il videogioco sia sugli scaffali. E quindi viene da chiedersi, come fa l'ottimo video del canale Glitch, in parte tangente al nostro discorso e assai lucido e stimolante, se non si possa cogliere l'occasione per spezzare il cerchio, in vari sensi. Simili, importanti argomentazioni sono presenti anche nell'ottima analisi di Gianmaria Tammaro per minima&moralia, “La lezione di Elden Ring”.
Ha davvero senso imbarcarsi in una full-immersion da decine di ore di gioco in una sola settimana pur di produrre una recensione in anteprima? Soprattutto nel caso di un titolo che, come dimostra il già citato esempio di Sabaku no Maiku, dà il suo meglio quando è gustato ed esplorato palmo a palmo, in run da 100, 150, 200 ore – ma non è solo una mera questione di ore passate davanti allo schermo, perché occorre anche del tempo di riflessione per lasciar sedimentare la densità di Elden Ring. L'Anima della Scoperta VII, la blind run di Sabaku, ha accompagnato gli spettatori del suo canale YouTube per oltre centocinquanta episodi (alcuni dei quali composti da sole riflessioni e speculazioni su gioco e trama) e centinaia di ore di girato, concludendosi a luglio, quando in molti avevano già concluso la prima run. Siamo su coordinate opposte rispetto alle recensioni impazienti e tutte incentrate sul voto (degna di merito però la riflessione di Francesco Fossetti, di Everyeye, che ha scelto di non dare inizialmente il classico voto a Elden Ring). Qui si intende il videogioco come un percorso composto da diverse tappe di maturazione. Come un'esperienza, termine che forse lo definisce al meglio anche nel suo rapporto di vicinanza e unicità con gli altri mezzi artistici. Ed è alla luce di una tale esperienza che si possono affondare le mani nella critica videoludica veramente significativa, unendo i puntini della lore e allestendo una storia di teoria in teoria, analizzando le boss fight nei loro risvolti tecnici ma senza smettere di viverle con tutta l'emozione di uno scontro faccia a faccia, mettendo in relazione il macroscopico (dove Elden Ring eccelle) e il microscopico (dove invece risiedono i suoi punti più “sporchi”), con la lucidità e l'onestà di chi cerca e trova divertimento, profondità e passione nel sentirsi raccontare, nel vivere – e in definitiva, nel raccontare a nostra volta – una storia.
Che storia è, dunque, e che mondo è quello di Elden Ring? In Dark Souls le note dominanti erano quelle di nichilismo e disperazione, una certa sensazione di eeriness abbinata all'impressione di essere entrati di sbieco in una storia non nostra, un mondo cristallizzato e refrattario all'intervento esterno – refrattario forse alla vita stessa, perché ognuno sembra sospeso in un limbo. I personaggi non giocanti sono a Lordran per assolvere una funzione; i boss sono baluardi di uno status quo che, soffocato dalla loro sorveglianza, si è estinto come un fuoco privato dell'ossigeno. Ornstein e Smough, la più iconica e temuta coppia di nemici del gioco, ne sono il perfetto emblema: situati al cuore della maestosa Anor Londo, così simile a una gigantesca tomba di marmo, lottano fino allo stremo delle forze per proteggere quella che, a tutti gli effetti, è una mera illusione. E il motore della vicenda, in definitiva, è la pietosa agonia di un uomo che ha ridotto in cenere il mondo pur di tenere accesa la fiamma, perché aveva paura del buio, come un bambino.
In Bloodborne regnano rabbia e follia, declinate in vari, immondi gradi di distorsione mentale. Ogni creatura è cacciatore o preda; se non vuoi essere preda – il giocatore lo riceve come insegnamento fin dal primo boss del gioco, didattico come da tradizione FromSoftware – sarà meglio che tu diventi in fretta cacciatore.
Quello di Elden Ring è certamente un mondo cupo, ma parla una lingua diversa, a partire dalla maestosità dei suoi scorci che invitano a scalare ogni vetta, geografica e umana. È un mondo decadente e ferito, ma le sue fratture non paiono mai impossibili da ricomporre, la gloria perduta non pare mai irrecuperabile. Il colore ricorrente, insieme al nero, è l'oro; le foglie dell'autunno, certo, ma anche una corona che, pur abbandonata, non si è mai arrugginita. Dorate sono anche le venature dei vasi riparati secondo l'arte giapponese del kintsugi: esaltare le fratture rinsaldandole con l'oro fuso, anziché nasconderle o camuffarle, perché ogni cicatrice racconta una storia che non va dimenticata, e che renderà più forte il nuovo vaso. È impossibile non guardare il profilo dorato dell'Albero Madre, che campeggia da ogni punto di osservazione sul panorama, e non sognare di raggiungerlo, un giorno, e poggiarci la mano, come un bambino che sogna di toccare la luna.
Anche Elden Ring ha i suoi abissi, geografici, narrativi ed emotivi. Ma possiamo fare un paragone. Uno dei momenti più famigerati del primo Dark Souls è la discesa nella Città Infame, un tuffo verso l'oscurità e i mari ardenti di lava che troveremo nel cuore della terra, sede di un male antico, un orrore da cui non c'è via d'uscita: si può solo tornare indietro seguendo i nostri passi. Le immersioni di Elden Ring, invece, hanno tutt'altro fascino. Sotto la superficie della terra si aprono mondi nuovi, che ricordano i vari stadi dell'abisso nel manga Made in Abyss: impossibili volte stellate, algidi templi, una civiltà di sacerdoti e guerrieri spettrali. E anche quando si scende verso gli ambienti più turpi (non manca certo il classico lago pestilenziale) non si smette mai di avvertire una tensione verso l'esterno, verso l'alto, verso il cielo. E non a caso, sul fondo dell'abisso troviamo un abitante delle stelle, una meteora caduta, e il montacarichi che ci riporta in superficie (Elden Ring ne ha molti di questi passaggi vertiginosi, a esemplificare tutta la sua tensione epica fra alto e basso) ci svela l'area della mappa forse più narrativamente vicina alle stelle stesse.
L'Interregno è un mondo dove l'ordine aureo, rappresentato da Marika e Radagon, si è spezzato, e insieme a esso si è frantumato il suo garante, l'anello ancestrale. L'assassinio del principe Godwyn e il furto della runa della morte hanno sconvolto gli equilibri, gettando un'ombra sull'Albero Madre – un'ombra, pare, sanabile solo con la guerra e le fiamme, visto che la morte non agisce più da grande parificatrice. Figli, figliastri e discendenti di Marika e Radagon si danno battaglia, aprendo solchi da cui escono antichi misteri e creature.
Ma nonostante l'atmosfera decadente, personaggi e nemici hanno un proposito, non si rassegnano al declino. Cercano un significato nel dolore del mondo, cercano una spiegazione e una soluzione al suo disordine. Agiscono, tramano, combattono. Anziché comportarsi da segnaposto inanimati, tutti gli NPC si spostano da un lato all'altro della mappa, gettandosi all'avventura come il nostro protagonista – come faceva uno di personaggi non a caso più amati del primo Dark Souls, Solaire. Alcuni agiscono su scala strettamente individuale, per difendere i propri interessi (lo sventurato Patches, figura ricorrente nella saga) o riconquistare un castello e salvare la figlia (il triste destino di Edgar e Irina nella Penisola del Pianto). Altri hanno ambizioni più alte e ragionano sui massimi sistemi: Lady Tanith, adepta e compagna del serpente divoratore di dèi, bestia determinata a sovvertire l'ordine del mondo tra le fiamme della ribellione; o Maschera d'Oro, asceta silenzioso alla ricerca di una soluzione filosofica per ripristinare l'ordine aureo. Altri ancora, e sono forse i più umani e struggenti, confrontano i propri sogni e desideri contro le asperità del mondo, senza paura di denudare il cuore sul palcoscenico. Alexander Pugno di Ferro è un vaso guerriero – e qui torna esplicitamente il tema del kintsugi. Appartiene a una razza di vasi vagamente antropomorfi, muniti di braccia e gambe; ma il suo buffo aspetto smette ben presto di suscitare risa, perché Alexander è un alleato tra i più fieri, che gira l'Interregno a caccia di nuove sfide per dimostrare il proprio valore, e soprattutto per crescere, per forgiarsi nelle sconfitte, ricomponendo i frammenti rotti del proprio corpo dopo ogni battaglia. Il suo vaso, dove ogni cicatrice è esposta in bella mostra, è letteralmente riempito con le ceneri di altri valorosi guerrieri.
Scomporre e ricomporre, dunque, riparare ciò che è rotto e recuperare ciò che è perso, il tutto letto attraverso la chiave prettamente fisica, carnale, del corpo (significativamente, Maschera d'Oro, che percorre la strada della mente, ha un corpo prosciugato e immobile come una mummia). I boss declinano questo fil rouge con toni particolarmente intensi e tragici, intessendo un dialogo fitto di arti mancanti, tranciati, rimpiazzati o reinnestati. Sono dèi e semidèi, protagonisti di un'antica guerra fra di loro e contro il mondo, ciascuno con le proprie mire e le proprie angosce – ma sono tutte figure, pur imponenti e divine, prettamente corporee e, in definitiva, umane. Se sono mostruose, la loro non è una mostruosità aliena, ma è quella che alberga in ciascuno di noi. Godrick, pecora nera tra i semidèi, ritiene il proprio corpo insufficiente allo scopo e lo potenzia smembrando i sudditi del regno per innestarsi i loro arti, divenendo una chimera dalle molte braccia in bilico fra lucidità e follia. Lo stesso sottile equilibrio in cui vive il generale Radahn, le cui estremità sono state divorate dalla marcescenza scarlatta – una sorta di soluzione finale scatenata involontariamente su Caelid dalla rivale e sorellastra Malenia. Quando lo incontriamo, lo vediamo cibarsi di corpi umani, chino sulla sabbia come un cane; ciononostante, pur con la pestilenza che gli ammorbava il cervello, ha avuto la sensibilità di apprendere la magia gravitazionale per alleggerire il proprio enorme corpo, in modo da non pesare sulla sua adorata cavalcatura e unico mezzo di trasporto, il cavallo Leonard. Affrontando Radahn, si ha l'impressione di combattere un antico eroe di guerra ferito, un prodigio della natura che, all'apice delle forze, ci avrebbe schiacciati in un sol colpo e che oggi possiamo battere solo per via delle sue debolezze, e con l'aiuto dei partecipanti al festival di Mantorosso. Sconfiggerlo significa liberare uno spirito puro e nobile dalla sofferenza di quella vita ormai indegna della sua statura.
Il Gigante di Fuoco, baluardo di una razza esiliata e custode di un'antica magia, si stacca la gamba fratturata, ormai inservibile, per usarla come mazza. Lord Rykard il Blasfemo è stato divorato dal serpente ma continua a vivere dentro al suo corpo, ed estrae dallo stomaco la rivoltante spada con cui combatte. Similmente, Maliketh ha sigillato un frammento della runa della morte dentro di sé, per non farsela più rubare, e liberandola torna a impugnare la lama nera. Malenia, spadaccina invitta, la nemica forse più formidabile dell'intero gioco, è rimasta mutilata a causa della marcescenza che cova nel suo corpo, ma combatte ugualmente con maestria grazie a protesi meccaniche: quella al braccio è fusa con la spada. Combatte, come tutti i boss di Elden Ring, con dignità, nobiltà e rispetto. Non mulina colpi alla cieca e non cerca infide scorciatoie. Il sottile filo della lucidità non si spezza mai. E allora, compito del videogiocatore è mostrarsi degno di tale rispetto. È la primissima lezione che impariamo, quando ci affacciamo sui prati erbosi di Sepolcride e troviamo una gigantesca sentinella dell'Albero Madre che pattuglia il sentiero in groppa al suo temibile cavallo. Possiamo scegliere di evitarla girandole attorno; ma se decidiamo di affrontarla sarà uno scontro onesto e impietoso, una giostra medievale da combattere magari in sella alla nostra cavalcatura spiritica, Torrente. Il primo vero boss del gioco rincara la dose e ribadisce la lezione. Margit sbarra l'accesso al castello di Grantempesta e si pone come asticella che ogni aspirante lord ancestrale deve superare: qui si parrà la tua nobilitate, sembra dirci quando pronuncia “put these foolish ambitions to rest”. Il senso è che sogni e ambizioni non valgono nulla, se non si ha la forza per supportarle. Quella forza che è condizione minima ed essenziale per sopravvivere nell'Interregno, e che però, a differenza di quanto accadeva nei passati titoli FromSoftware, può essere trovata in vari luoghi e costruita in molti modi.
Elden Ring, in questo senso, è un videogioco molto più giocatore-centrico dei predecessori. Lo è nel gameplay, che offre un'ampia libertà di scelta e soprattutto una sensazione di libertà, che non si limita a percorrere tragitti differenti per la stessa meta ma che dialoga con gli elementi di roleplaying invogliando il giocatore a costruire un background, un obiettivo, uno sviluppo per il proprio avatar digitale: a scegliere la propria arma e la propria strategia e superare le difficoltà fedele ai suoi principi, anziché cercare la soluzione più efficace o potente. In una parola, a raccontare la propria storia, che si intreccia e si scontra con le altre. Lo è anche nella narrazione, perché se in Dark Souls eravamo un vago chosen undead, risvegliato dalla morte e abbandonato a sé stesso nel crepuscolo del mondo, in Elden Ring vediamo e sentiamo che qualcuno o qualcosa ci ha scelto, e ci sta guidando tramite la luce della grazia verso il trono del lord ancestrale; vuole che lo raggiungiamo, anche se le motivazioni di tale entità risultano oscure e persino contraddittorie, per costruire – o quantomeno ripristinare – anziché distruggere. Il contrasto fra questa ambizione, questa speranza, e la generale ostilità del mondo crea quella tensione epica che sta al fulcro di Elden Ring. E persino quando la storia precipita verso il suo angoscioso finale, e ci accorgiamo di come il mondo sia in balia di forze esterne e forse incontrollabili, di come l'unica apertura attraverso la spinosa corteccia dell'Albero Madre sia un atto di ribellione più che un'ascensione, che esige un grande costo, ispirati da NPC, boss e dal nostro stesso vissuto digitale non ci sentiamo mai strumenti privi di potere. La nostra identità sta nella dignità, nella forza di dare il senso che vogliamo alla nostra stessa esistenza. L'Interregno, lo dicevamo, è un continente di ponti crollati, oppure irraggiungibili, chiusi, celati da incantesimi. Eppure, nessun legame, seppur spezzato, sembra mai irrecuperabile. Anche noi possiamo cauterizzare le ferite con il sacrificio, come Malenia e Radahn, e ricomporre ciò che è frantumato lavorando magari insieme agli altri tarnished, i reietti senzaluce, tramite i messaggi da lasciare sul suolo nella tipica modalità cooperativa online del genere o nella semplice condivisione dell'esperienza, nel dialogo con la community. Qui Elden Ring sembra contenere, chissà quanto consapevolmente, una goccia dell'essenza di Death Stranding – che è, in definitiva, una storia sul ricostruire ponti caduti o nuove strade, ciascuno portando il proprio mattone.
Tutto questo si sublima nello scontro con Godfrey, il primo lord ancestrale, tornato a Leyndell per reclamare il proprio posto sul trono. Se nel primo Dark Souls si aveva la costante impressione di essere come il protagonista di Berserk, Gatsu, un semplice umano in lotta con gli dèi e costretto a sacrifici inumani per accrescere il proprio potere, in Elden Ring si sperimenta una sensazione diversa. Crescendo, combattendo ed esplorando, il giocatore può combattere ad armi pari contro gli dèi, perché in fondo gli dèi non sono così diversi da noi: sono creature con un'arma e una storia da raccontare. Godfrey è una figura imponente, un guerriero leggendario, ma è un tarnished come noi, guidato dalla ritrovata luce della grazia in direzione del trono ancestrale. E in un'immagine breve, sottile, ma tremendamente significativa, vediamo che il fascio di luce della sua grazia punta verso di noi, così come il nostro punta verso di lui. Noi siamo il boss che Godfrey dovrà affrontare sul suo cammino. E se Margit ci aveva messo altezzosamente alla prova, Godrey dà ormai per assodato il nostro valore – non saremmo mai arrivati fin lì, altrimenti – e ci affronta da pari a pari, giungendo persino all'atto di massima nobiltà: messo alle strette, abbandona le ingessate vesti del re per tornare alla sua natura originaria, quella di un guerriero barbaro che lotta a mani nude. Nel primo fermo immagine dopo la “trasformazione” c'è una scena che racchiude l'intera narrazione di Elden Ring: Godfrey, tornato al nome di Hoarah Loux, corre verso di noi con le braccia spalancate. Nessuna difesa, vuole abbrancarci e colpirci con ogni fibra dei suoi muscoli. Noi abbiamo poche frazioni di secondo per scegliere. Eviteremo il suo assalto, come vuole il manuale del buon giocatore dei souls, per contrattaccare di rimessa? Oppure sfodereremo l'arma e lo attaccheremo faccia a faccia, scambiandoci sangue e punti vita come due eroi di uno shonen manga che si sfidano con il rispettivo colpo migliore?
Werner Herzog una volta disse: “Tutti i miei film provengono dal dolore”. Ci sono molti tratti in comune fra i mondi immaginati dal regista tedesco e quelli di Hidetaka Miyazaki: sono mondi inospitali e refrattari, talvolta assurdi, dove le grandi gesta rischiano di tradursi in farsa, il più nobile degli eroi può morire sotto i denti di un qualsiasi ratto di fogna, e il trionfo raramente porta al risultato sperato, al cospetto di forze incontrollabili e incomprensibili. Anche la loro estetica a tratti coincide. Tuttavia, Miyazaki dice una cosa ben diversa rispetto a Herzog. Quando si parla dei souls è facile concentrarsi solo sulla tipica difficoltà del gioco, sulle numerosi morti che attendono il giocatore sulla strada per il successo, quasi come se il gioco fosse una tortura a cui il sadico sviluppatore sottopone i giocatori. Un'edizione successiva del primo Dark Souls portava il significativo sottotitolo “Prepare to Die”, e nelle sacche più tossiche della community si è creato un filone machista che vede nell'abilità con il controller l'unico mezzo di vittoria e di auto-affermazione. “Git gud”, spelling alternativo di “get good”, è la tipica risposta che accoglie un giocatore alle prime armi alla ricerca di consigli su come battere un certo boss. A seconda di come la si interpreta, però, può significare due cose molto diverse. Uno sbrigativo “o ce la fai, o non ce la fai”, come a dire che i videogiochi sono roba per bulli, per gente tosta, o un più profondo “impegnati, lotta e migliora finché non diventerai abbastanza bravo”. Basta leggere una qualsiasi affermazione di Hidetaka Miyazaki per capire che, nella sua mente, il significato dei souls sta tutto nella seconda, ed è un significato molto meno pessimista e nichilista di quanto si tenda a pensare, più in linea con chi ha paragonato, con termini centrati e struggenti, l'avventura con Dark Souls a un percorso con la depressione.
“Io non sono mai stato un videogiocatore particolarmente abile” ha raccontato Miyazaki in un'intervista pubblicata dal New Yorker in occasione dell'uscita di Elden Ring – ed è notevole che riviste del genere concedano un tale spazio a game designer come lo stesso Miyazaki o Hideo Kojima. “Morivo molto spesso. Perciò, nello sviluppare i miei giochi, mi sono posto questa domanda: se la morte dev'essere un simbolo di fallimento, come fare a darle significato?”
La prima, brillante intuizione che ha trovato è stato integrare l'idea stessa della morte nel gameplay. I game over dei videogiochi sono uno di quei compromessi che accettiamo per abitudine e convenzione. A meno che il videogioco non proponga una cosiddetta permadeath, con ogni morte che riporta alla schermata iniziale, si accetta la finzione di un'avventura che permette secondi, terzi, quarti tentativi. In Dark Souls, invece, gli abitanti di Lordran sono già non-morti; ogni game over non è altro che un soft reset, che ci riporta sulla scena insieme ai nemici appena abbattuti. In Elden Ring, il concetto stesso di morte, quella definitiva e fatidica, è stato sottratto dal mondo tramite il furto della runa corrispondente; nulla, pertanto, muore veramente.
Spesso i souls vengono definiti giochi punitivi, persino frustranti, ma parte della loro grandezza sta nel fatto che ogni game over è un'esperienza didattica, propedeutica. Se si è attenti ai dettagli, ogni sconfitta rimediata da un boss insegna qualcosa sul suo stile di combattimento, sui suoi punti deboli, sulle finestre ideali per colpirlo. A ogni sconfitta diventeremo più bravi e più forti, a volte senza nemmeno accorgercene, con il puro meccanismo della ripetizione. “Quando gioco a questo tipo di giochi” dice sempre Miyazaki “mi piace pensare: questo è il modo in cui voglio morire, un modo divertente o interessante, che crea una storia da condividere. Morte e rinascita, tentativi, fallimenti e successi: voglio che il giocatore possa apprezzare questo ciclo. Nel mondo reale, la morte è una cosa orribile. Nel gioco, può diventare qualcos'altro”.
Immaginare mondi dove la morte non è definitiva, dove la morte può essere qualcos'altro: difficile immaginare una visione più ottimista di questa, in verità. Se i mondi di Miyazaki sono così oscuri, quindi, così cupi e respingenti, è perché la vita stessa in fondo è così: metterlo in primo piano, mettere la morte al centro della narrazione, serve a farci capire la sua importanza, a rendere l'avventura più vera. È anche per questo motivo che l'estetica dei souls si abbina così bene all'immaginario di un manga come Berserk o al sottogenere grimdark fantasy, che trova proprio nel George R. R. Martin de Il Trono di Spade uno dei suoi alfieri. Ma portare sul palcoscenico sangue e sporcizia, morte e tristezza, assurdità e sconfitta, non significa affatto asserire che la misura del mondo sta nella grettezza, come in una compiaciuta pornografia della miseria e del dolore. Significa anzi mettere a confronto la bassezza con il suo opposto. Elden Ring riesce meglio di ogni altra opera FromSoftware a far percepire questa vergine, questa tensione fra alto e basso, e lo fa adottando un linguaggio epico. L'Albero Sacro di Miquella è un luogo che ricorda la Anor Londo di Dark Souls per la sua tragica, paradossale inutilità. È una roccaforte isolata nell'angolo estremo della mappa, nascosta da un enigma e difesa con le armi, volta a proteggere un tesoro che però è stato già trafugato. È una Lothlorien o una Granburrone autunnale e decadente, macchiata però nel suo cuore da un lago marcescente. E tuttavia, è un luogo bellissimo e struggente, nato da un atto d'amore fraterno, da una speranza di ricongiungimento che non accetta di spegnersi, come Malenia che continua a combattere, pur mutilata, con le sue protesi meccaniche. Un luogo dove l'oro fuso risplende nelle fratture del vaso.
Perché l'importante è proprio questo dialogo vertiginoso, questo montacarichi che dal'abisso conduce alle stelle e viceversa, che suggerisce vette non raggiunte e forse non raggiungibili.