Verso un'estetica del biologico - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Gorgone
Gorgone | Copyright: Felice Vino

Verso un'estetica del biologico

La costruzione di un laboratorio permanente. Il dialogo sull'arte ibrida tra un'autrice e un artista visivo.

Gorgone | Copyright: Felice Vino
Marilina Ciaco

è dottoranda di ricerca in Literature and Transmedia Studies presso l’Università IULM di Milano. È stata selezionata come autrice emergente per l’edizione 2017 di RicercaBo. Nel 2018 ha partecipato alla performance poetica La notte di San Lorenzo presso il Museo per la Memoria di Ustica (Bologna). È stata fra i finalisti del Premio Nazionale Elio Pagliarani 2019 per la raccolta inedita Sinapsi. Ha pubblicato la plaquette Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni Volatili, 2020), con illustrazioni di Giuditta Chiaraluce.

Felice Vino

è autore di opere visive e audiovisive. Tra queste: lo spettacolo teatrale Sentimenti virtuali (2004), il cortometraggio Il tempo della fioritura (2005), la serie web Protocollo S (2014). Dopo aver lavorato nel campo della comunicazione come videomaker, è approdato alla Mixed Media Art e ha prodotto alcune serie di elaborazioni digitali, tra le quali Embryo e Zoema, esposte nel 2019 presso lo Spazio Hus di Milano.

Questo articolo nasce dal desiderio di documentare la collaborazione instauratasi tra Marilina Ciaco (che recentemente ha pubblicato la plaquette poetica Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni Volatili, 2020) e l'artista visivo Felice Vino, in particolare riguardo la sua ultima serie Zeoma (2019).
Partendo da esperienze ed espressioni artistiche differenti, il dialogo è proseguito qualche anno intorno al rapporto fra arte e scienza. Da questo dialogo e dalle numerose connessioni scaturite, di cui qui si vuole proporre un’istantanea, nasce in questi giorni un progetto sinestetico fatto di parole, immagini, ambienti, contaminazioni che si nutrono di scenari presenti e futuri.
Gli autori provano a enucleare i diversi spunti di riflessione che vengono alla luce nel momento in cui, dall’osservazione e dalla rielaborazione di dati biologici, scaturisce un’operazione estetica. Corpi, organi, creature animali e vegetali, organismi proteiformi delineano un’estetica dei mondi possibili. Questa, attraverso la riorganizzazione linguistica e digitale del “vivente” si pone in contatto con quella materia, magmatica e creatrice,  da cui tutto prende forma.

Embryo_8

Embryo_8 | Felice Vino

Marilina Ciaco: Quando ho visto per la prima volta la tua serie di elaborazioni digitali, in particolare quelle afferenti al progetto Zoema, ho pensato subito a delle creature ibride, che oggi riterremmo “fantastiche” ma che in un futuro possibile potrebbero incominciare a svilupparsi, secondo cicli e processi che neppure arriviamo a immaginare del tutto. D’altronde, diversi saggi di teoria critica pubblicati in Italia negli ultimi anni hanno affrontato tematiche di questo tipo analizzando le molteplici implicazioni di una vita biologica “segreta”, nascosta, che soltanto in tempi recenti abbiamo incominciato a includere nel nostro orizzonte di pensiero su scala più diffusa: Chthulucene di Donna Haraway, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza di Emanuele Coccia, fino a L’ordine nascosto. La vita segreta dei funghi di Merlin Sheldrake. All’interno delle tue composizioni convivono alcuni elementi, tutto sommato, familiari – uno scheletro, l’ala di un insetto, una branchia, un polmone – e sono collocati in modo tale da rispettare le strutture simmetriche tipiche di gran parte dei regni naturali, caratteristica che rende queste forme plausibili all’occhio di un osservatore. Al tempo stesso, vi è una disgregazione visiva delle tassonomie e delle gerarchie per cui da un torace umano possono diramarsi delle estensioni che ricordano quelle di un lepidottero o di un anfibio, o ancora di una pianta. Quali sono i principi compositivi che hanno condotto alla creazione di questi corpi?

Felice Vino: Per gli ibridi ai quali ti riferisci, utilizzo uno schema che si muove su tre assi principali: limite, trasparenza ed equilibrio. Il limite è dato proprio dalla plausibilità che devono ispirare queste creature, dalla loro parziale aderenza al “già noto”; la trasparenza, nel mio caso quella digitale, è un modo di rielaborare il visibile, incidendo e scavando a mezzo di luci artificiali una serie di immagini open source facilmente reperibili sul web, utilizzando software gratuiti; l'ultimo principio consiste in una vera e propria azione retorica visiva, che cerca di sfruttare quel bisogno gestaltico di equilibrio forzando le simmetrie e inserendovi delle anomalie. Queste creature potrebbero essere definite mostruose, ascritte ad un bioma alterato, ma nel contempo sono possibili, e in un certo senso già esistono in quanto plasmate a partire da elementi già dati. Ai miei occhi, questa tensione che si instaura fra il noto e il possibile è la stessa che rende accessibili versi come «allora conta fino a centodieci per sentire l'apparecchio//Funziona se f(x) non è un numero immaginario», versi che attraversano aree semantiche solo all'apparenza distanti. Di rimando, leggo nella tua opera una simile tendenza al recupero e alla rimodulazione, al montaggio, di lessemi e unità lessicali appartenenti a campi del sapere e ad ambiti di esperienza variegati: letterario, quotidiano, scientifico, che solo grazie alla poesia restituiscono la vitalità intrinseca di cui sono dotati.

La copertina di

La copertina di "Intermezzo e altre sinapsi" | Giuditta Chiaraluce

MC: Lavorando a partire da tracce fotografiche reperite sul web, e a loro volta catturate dalla naturale configurazione estetica dei viventi, è come se nel tuo caso a un’ecologia del pensiero corrispondesse un’ecologia dell’immagine. Hai definito la tua ricerca un’arte povera digitale, intendendo con questa un insieme di pratiche volte alla rielaborazione di immagini preesistenti che si trasformano nei nuovi materiali di recupero della società digitale, alla portata economica e tecnologica di un ampio numero di utenti. Questo, in un certo senso, per il linguaggio verbale avviene (quasi) sempre. Scriviamo e siamo scritti da relitti linguistici che sedimentano, con gli anni, nella nostra memoria, e per un campo come quello della poesia il tema del rapporto controverso con una tradizione è decisamente fondante. Con l’avvento del web, la sovrabbondanza della produzione testuale e visuale rende sempre più anacronistico un discorso che ruoti attorno al vecchio mito dell’“originalità”. Nella mia scrittura mi interessa, piuttosto, provare a restituire il rigore di una visione, una prospettiva attraverso la quale esperire rapporti inconsueti fra gli enti e gli oggetti, partendo dall’impulso elettrico primario che segnala l’innesco di una percezione, quello appunto delle sinapsi.

FV: La parola sinapsi contenuta nel titolo della tua raccolta mi ha infatti interessato da subito. Per sineddoche richiama immediatamente il dispositivo cerebrale, ma più precisamente l'etimo svela che ci si riferisce al contatto, che a me fa pensare al tatto, il primo senso, il primo canale di comunicazione degli esseri viventi.  La vista non è che il tatto sensibile alla luce, e questo nel mio lavoro mi riconduce sempre al tentativo di scolpire figure a più dimensioni, tanto sugli assi cartesiani delle tre dimensioni quanto lungo la curva del tempo, sia cronologico che sincronico. Se l'educazione cinematografica mi ha portato a sfruttare la consecuzione come strumento di forzatura e racconto, usando giustapposizioni di segmenti visivi, in montage, mentre in ambito digitale posso tentare approcci ulteriori. Le stratificazioni di immagini che scolpiscono creature possibili sono il frutto di un ripiegamento del tempo. In una serie intitolata Embryo ho lavorato esattamente in questa direzione. Partendo da una forte impressione che mi fece da bambino osservare come lo sviluppo del feto umano attraversasse tutte le fasi evolutive del vivente, dalla cellula al pesce, dal rettile al mammifero, ho esplorato le possibilità di movimento che queste creature ibride avrebbero e le ho volute "fotografare" in una fase in cui il tutto è in potenza. La poesia è la forma espressiva che più di ogni altra mi ha avvicinato a queste considerazioni, e dunque ti faccio io adesso questa domanda: quale è, o quale credi possa essere, una possibile lettura dello spazio e del tempo in poesia, delle loro potenzialità di trasformazione, e come affronti questo nucleo nelle tue opere, dal punto di vista estetico e tematico?

Diva

Diva | Felice Vino

MC: Come hai osservato a giusta ragione, il concetto di sinapsi si lega al nostro rapporto con il sé e con il mondo in senso ampio, e quindi anche con lo spazio e con il tempo, o perlomeno con l’idea sempre parziale e fallace che ne abbiamo, sulla base dei filtri cognitivi e storico-culturali che non potremmo in nessun caso fare a meno di applicare. Esiste, però, un esercizio alla visione e all’ascolto, al contatto, veicolato dalle operazioni estetiche. Si invita il fruitore alla graduale messa in discussione di quegli stessi filtri che, se non possono essere aboliti, potrebbero uscirne demitizzati e relativizzati – potrebbero abbracciare la propria inevitabile fallibilità. Le scoperte scientifiche e gli sviluppi tecnologici hanno sempre contribuito a scardinare sistematicamente le certezze antropologiche delle epoche che li precedevano, è un processo che attraversa l’intera storia dell’umanità e del quale adesso non vediamo che le propaggini più estreme, con un’accelerazione che fino a vent’anni fa non sarebbe stata concepibile. La poesia in quanto genere, che per me ha sempre assunto un carattere rituale e una forte valenza meditativa, insieme alle arti visive sembra aver testimoniato con piglio più categorico la crisi della rappresentazione e dunque del paradigma mimetico-realistico, attraverso fenomeni spesso contraddittori di dilatazione e concentrazione semantica, moltiplicazione dei percorsi di senso, vuoti logici e interruzioni, ma anche conservando all’interno del corpo testuale la traccia della materia in quanto baluginio istantaneo, frammentario, puro movimento privo di finalità, che emerge nella materialità grafica e fonica della parola, nella libertà del significante. Nei miei testi lo spazio è innanzitutto un «sistema semi-aperto»: quello delle reti neurali che ci riconducono al nostro statuto di fenomeno biologico e ci riconnettono a tutti gli altri enti, ma anche quello della pagina che si fa oggetto e, in un certo senso, iper-oggetto, poiché connette le parole trascritte da una voce a tutte le possibili interpretazioni che un lettore o una lettrice potranno fornirne. D’altra parte, mi sento particolarmente vicina all’immagine che hai utilizzato del ripiegamento del tempo. Del resto, il mio "libretto" testimonia un’inversione temporale, quella per cui la “pausa” o il refrain diventano il punto d’avvio per un discorso multiforme e contraddittorio come la realtà che percepisco e che si confonde con gli spettri dell’immaginario, un canto spezzato sin dal principio. Penso quindi al tempo della poesia come a un presente infinitamente reversibile, un cortocircuito continuo della visione.

FV: Ti cito: «procede in silenzio / l'asta dei tuoi organi / rispetteranno i protocolli / di un espianto riuscito: / senza slittamenti / un pezzo al giorno», e ti faccio una domanda preceduta da una mia riflessione. In pieno Antropocene credo sia necessaria una riflessione sull'individualità e sull’identità. Per me lavorare su soggetti non umani, con un approccio estetico-scientifico, è sicuramente una fase parziale di un percorso di ricerca, ma una fase che trovo imprescindibile. Mi riallaccio quindi a quei versi citati per osservare che nelle tue opere avverto questa disarticolazione del soggetto, dal punto di vista contenutistico quanto compositivo, come se nei tuoi versi, in alcuni punti, la voce enunciante appartenesse alle parole stesse, delineando una individualità più simile ad una congerie neuronale che ad una singolarità armonica. Se questo è vero, come si inserisce questa operazione in una riflessione culturale sull’attualità?

H_571

H_571 | Felice Vino

MC: Assistiamo oggi al progressivo formarsi di una coscienza storico-sociale condivisa che testimonia un’urgenza di ridiscussione radicale dell’idea stessa di identità: la questione queer, le lotte sociali per l’uguaglianza e per l’autodeterminazione delle minoranze, il problema ecologico, la relazione uomo-macchina, lo spettro dell’estinzione rispetto al quale la pandemia non è stata che un ulteriore acceleratore, mi sembra che i grandi nuclei della crisi antropologica che stiamo vivendo siano ascrivibili, in un certo senso, a un minimo comune denominatore, tanto sul piano simbolico quanto su quello della prassi. I pilastri della società capitalistica, violentemente antropocentrica, esibiscono gli ultimi bagliori reazionari appena prima del crollo per collasso interno: non è più possibile continuare a pensare e agire in termini di progresso/accumulo/consumo egoriferito, così come non è più possibile continuare a concepire l’umano come monade autosufficiente, teleologicamente destinata all’egemonia. Gli organi senza corpo così come la voce «diffusa», disindividuata, segnalano forse in ciò che scrivo la possibilità di trasformare il linguaggio verbale attraverso il quale ci si identifica, la lingua idiomatica e controversa di un “io”, in un metalinguaggio che accolga le aporie, le asincronie, gli smottamenti di senso, in direzione di una più generale connessione con l’alterità, magari anche soltanto immaginata o desiderata, mediante le parole. I soggetti delle tue opere, che recuperano una dimensione figurativa solo dopo aver oltrepassato il vaglio dell’informe per eccellenza – la materia come indistinzione primigenia –, sono certamente dei non umani. La trasparenza dei frammenti di immagini scomposte e rimontate e la gamma cromatica luminosa, variegata, rimandano per contrasto all’opacità delle figure complessive che da tali operazioni risultano, alla loro indecidibilità ontologica. Questi esseri sconosciuti sembrano porre l’osservatore di fronte a un dilemma: siamo davvero pronti a farci carico delle conseguenze di una rivoluzione epistemologica tanto radicale? Siamo pronti non solo a comprendere, ma a confonderci con le infinite possibilità combinatorie della natura e degli algoritmi? Siamo pronti, in altre parole, a guardare i mostri?

FV: E io azzardo: siamo pronti a farci guardare da essi? Siamo immersi in flusso che non governiamo più e che spesso non riusciamo a percorrere. Per ristabilire una relazione con l’attuale credo sia utile iniziare a denotare la materialità del digitale. Come è successo già per il cinema, la cui fisicità si manifesta sulle superfici attivate dalla luce, pellicole, schermi e supporti più vari, così il digitale si fonda su attivazioni elettriche, microuniversi di silicio che esplodono e si ricombinano con un habitat familiare, come in sovraimpressione. Ma pure questo non basta. La mia opinione è che nell’immediato stiamo perlopiù catalogando reperti. Fossili persistenti, passati e futuri, immagini degradate, come l’iperproduzione di materiali glitchati pare dimostrare. Forse, ed è un forse molto profondo, invece di farci sorprendere dall’arrivo del treno elettrico alla stazione virtuale, dovremmo abituarci a rinunciare al ruolo di esploratori, a noi tanto caro, e riconoscere che un nuovo confine è dato e anche la nostra specie sarà paesaggio con tutto ciò che si cela oltre quel limite.

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Italia - 2020
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Marilina Ciaco

è dottoranda di ricerca in Literature and Transmedia Studies presso l’Università IULM di Milano. È stata selezionata come autrice emergente per l’edizione 2017 di RicercaBo. Nel 2018 ha partecipato alla performance poetica La notte di San Lorenzo presso il Museo per la Memoria di Ustica (Bologna). È stata fra i finalisti del Premio Nazionale Elio Pagliarani 2019 per la raccolta inedita Sinapsi. Ha pubblicato la plaquette Intermezzo e altre sinapsi (Edizioni Volatili, 2020), con illustrazioni di Giuditta Chiaraluce.

Felice Vino

è autore di opere visive e audiovisive. Tra queste: lo spettacolo teatrale Sentimenti virtuali (2004), il cortometraggio Il tempo della fioritura (2005), la serie web Protocollo S (2014). Dopo aver lavorato nel campo della comunicazione come videomaker, è approdato alla Mixed Media Art e ha prodotto alcune serie di elaborazioni digitali, tra le quali Embryo e Zoema, esposte nel 2019 presso lo Spazio Hus di Milano.

Pubblicato:
02-10-2020
Ultima modifica:
05-10-2020
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