Moda e post-umano - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Le skin di Balenciaga su Fortnite
Le skin di Balenciaga su Fortnite

Moda e post-umano

Modelli griffati nei videogiochi e abiti virtuali. Nel mondo digitale la moda ha l’opportunità di contribuire a costruire nuove corporeità.

Le skin di Balenciaga su Fortnite
Matteo Lupetti

Matteo Lupetti è un critico marxista specializzato in videogiochi, fumettista indipendente e direttore artistico del festival di narrazioni di realtà CreteCon.

L’accelerazione dei processi di digitalizzazione dovuta alla pandemia di COVID-19 ha riguardato anche la moda. Non più solo vestiti, scarpe e accessori digitali per personalizzare i nostri personaggi nei videogiochi, ma anche per vestirci nelle foto e nei video sui social network, durante le videochiamate, negli spazi virtuali su cui le compagnie vogliono costruire il cosiddetto metaverso. La moda digitale è ancora legata alle logiche e alle convenzioni di quella tradizionale e fisica, ma ci offre la possibilità di ripensare cosa la moda sia, e quale possa essere il suo ruolo nell’era del cambiamento climatico.

L’assenza di eventi dal vivo e il blocco della produzione nel 2020 hanno costretto l'industria della moda a rinunciare al mondo fisico e ad abbracciare quello virtuale. Per esempio, a maggio 2020 la stilista Anifa Mvuemba ha fatto sfilare, su Instagram e senza modelle, riproduzioni 3D dei suoi abiti;  il marchio Anaïs Jourden di Anaïs Mak, non potendo completare la produzione della sua collezione autunno/inverno 2020, ha trasformato parte dei suoi abiti in modelli 3D e li ha presentati in una sfilata ibrida fisica e digitale, facendoli indossare sia da modelle in carne e ossa sia da modelle virtuali. Intanto, dovendo passare tempo isolate e spendendo gran parte di questo tempo su internet, alcune persone hanno iniziato a preoccuparsi del loro aspetto online, o comunque hanno iniziato a dargli un peso diverso rispetto a prima. La modellazione 3D di vestiti, scarpe, gioielli e accessori è usata da tempo in fase di progettazione e prototipizzazione, ma abbiamo cominciato a leggere della possibilità di vestire abiti digitali che magari neanche esistono e che possono essere indossati solo virtualmente. 

Non si tratta di una novità per i 3,2 miliardi di persone che al mondo si interessano di videogiochi: da anni le principali opere videoludiche si affidano a modelli di monetizzazione basati sull’acquisto di oggetti digitali al loro interno. Molto spesso, questi oggetti digitali sono “skin” (“pelli”), cioè vestiti, accessori e corpi digitali con cui personalizzare il nostro personaggio, completarli con un’espressione della nostra personalità e del nostro status nel gioco. Magari sono rari, o conquistabili solo superando una sfida particolarmente difficile, o magari sono semplicemente costosi, e la nostra spesa (permessa dalla nostra classe sociale nel mondo fisico) comprova la nostra dedizione all’attività ludica. Il celebre videogioco di sparatorie Fortnite di Epic Games è il più noto esempio di questo fenomeno: Fortnite è scaricabile e giocabile gratuitamente, ma il nostro personaggio può essere personalizzato acquistando e indossando corpi digitali spesso brandizzati. In Fortnite posso essere Spider-Man (anzi, posso persino essere Spider-Man interpretato da Tom Holland), posso essere Batman, e posso indossare abiti firmati da Balenciaga e da Moncler.

Le skin di Moncler su Fortnite

Le skin di Moncler su Fortnite

Le collaborazioni tra Fortnite e Balenciaga e Moncler non sono le prime tra alta moda e videogioco. Limitandosi ad alcuni casi casi che riguardano la creazione di abiti/corpi digitali, Diesel, Moschino e, recentemente, Stefan Cooke sono arrivati nella serie di simulatori di vita The Sims di Electronic Arts, Louis Vuitton ha realizzato skin per il videogioco competitivo a squadre League of Legends del gigante cinese della tecnologia Tencent, Civilist e MISBHV hanno vestito i personaggi di Grand Theft Auto Online di Take Two e Prada ha portato una collezione nel videogioco di sport estremi Riders Republic di Ubisoft. Particolarmente lunga è la lista degli incontri tra Gucci e videogiochi: Tennis Clash, il già citato The Sims, Pokémon Go (insieme a The North Face), Roblox (dove potete trovare anche Nike) e Animal Crossing: New Horizons di Nintendo.

In Animal Crossing: New Horizons, uscito a marzo 2020, abito e gestisco un villaggio pieno di animali antropomorfi su una remota isola,  posso personalizzare con una certa libertà edifici e vestiario. Qui il berlinese Reference Festival ha organizzato una sfilata di moda come collaborazione tra lo stilista Marc Goehring e la fotografa Kara Chung, che ha aperto un account Instagram incentrato sul riproporre nel gioco abiti di famose case di moda, collaborando con Marc Jacobs, Valentino, Maison Margiela, Isabel Marant e Ted Baker.

Ma la digitalizzazione della moda non si ferma ai nostri avatar nei videogiochi. Quando si legge di questo argomento, il nome che viene citato più spesso è probabilmente quello di The Fabricant, casa di moda digitale fondata a Amsterdam da Kerry Murphy, Amber Slooten e Adriana Hoppenbrouwer nel 2018. Il loro abito digitale Iridescence, creato insieme a Dapper Labs e Johanna Jaskowska, è stato battuto all’asta per 9500 dollari nel 2019, e chi lo ha comprato ha potuto inviare una foto affinchè il vestito venisse sovrapposto digitalmente al corpo della persona a cui era destinato. È una pratica diffusa nell’ambiente: siccome parte della nostra vita la passiamo su social network incentrati sull’immagine e sull’immagine fotografica, non serve un abito fisico per esprimere la nostra personalità (e il nostro status e la nostra classe sociale) su internet. Secondo una ricerca del 2018 di Barclaycard, il 9% delle persone nel Regno Unito ha acquistato un vestito solo per farsi una foto da pubblicare sui social network, per poi rimandarlo indietro (la percentuale sale al 17% nella fascia di età 35-44). Allora basta un abito digitale, indossato anche in un’unica foto  video, come i filtri che usiamo per modificare i nostri volti su Snapchat e Instagram. Al momento, non è un processo che può essere affidato integralmente a un’intelligenza artificiale, quindi è necessario personale specializzato che lavori alle foto, ma l’idea è che con l’avanzare delle tecnologie diventi possibile creare abiti e accessori digitali da indossare sempre più facilmente, anche in video e videochiamate.

 

 

Oltre a The Fabricant, possiamo citare altre case di moda digitale come Tribute Brand di Gala Marija Vrbanic e Filip Vajda, Placebo, Republique e Auroboros. Anche la catena scandinava Carlings ha sperimentato con una collezione digitale già nel 2018, e Imitation of Christ di Tara Subkoff ne ha lanciata una a inizio 2022. La moda digitale ha una sua testata specializzata, This Outfit Does Not Exist di Daniella Loftus, viene venduta su piattaforme dedicate come Replicant Fashion, The Dematerialized e DressX di Daria Shapovalova e Natalia Modenova. Si occupano di adattare alle foto gli abiti acquistati, di creare apposite versioni digitali per i marchi che lavorano solo nel mondo fisico e di creare loro collezioni in-house attraverso varie collaborazioni. A dicembre 2021, la rivista Vogue Leaders, allegata a Vogue Czechoslovakia, aveva in copertina Maye Musk, madre dell’imprenditore e internet troll Elon Musk, con addosso un abito proprio di DressX.

Come altre case di moda digitale, The Fabricant propone i suoi abiti “come NFT,” cioè come oggetti digitali 2D o 3D che sono conservati su internet e di cui la proprietà e l’autenticità è registrata sul un registro online, decentralizzato e condiviso (e quindi difficile da falsificare) della blockchain. Una tecnologia che ha ricevuto molta attenzione a partire dalla pandemia e che è nata per registrare le transazione delle cosiddette criptovalute, per esempio dei Bitcoin. Iridescence è stato, da quel che so, il primo abito digitale proposto in questo modo. Un oggetto digitale registrato su blockchain può essere inoltre rivenduto (e può garantire a chi lo ha originariamente creato una percentuale ogni volta che questo avviene), diventando a tutti gli effetti uno strumento di speculazione, come le criptovalute a cui è imparentato. Si parla persino di modelli “wear-to-earn” (“indossa e guadagna”), ispirati ai modelli “play-to-earn” (“gioca e guadagna”) dei videogiochi che registrano il possesso di oggetti digitali e personaggi su blockchain. Giochi nel caso di Axie Infinity, un Pokémon-like in cui ogni mostro che gestiamo è unico ed è registrato come NFT su blockchain,  la cui criptovaluta che guadagnamo combattendo può essere venduta in cambio di valuta tradizionale. Siccome anche solo possedere i mostri/personaggi per iniziare a giocare è molto costoso (si possono spendere anche 1500 dollari secondo Rest of the World), chi può permettersi di comprare creature le affitta a persone che non possono invece permetterselo, persone provenienti soprattutto dal sud globale, in cambio di parte dei loro guadagni. Nel wear-to-earn invece il possesso e l’uso di un certo oggetto digitale indossabile in un dato mondo digitale permetterebbe di guadagnare opportunità esclusive, altri asset digitali o criptovalute.

Tribute brand, casa di moda digitale

Tribute brand, casa di moda digitale | Tribute Brand / Instagram

Mondi online basati sulla blockchain come Decentraland, che ha annunciato la sua prima fashion week, e The Sandbox, su cui sono arrivati Adidas e Gucci, permettono all’utenza di creare, vendere, acquistare e far indossare agli avatar oggetti di cui la proprietà viene registrata come NFT. Secondo un’analisi di Chainalysis diffusa da Bloomberg, nel 2021 il valore degli NFT acquistati e venduti è stato di almeno 40 miliardi di dollari. Facendo qualche esempio limitato, di nuovo, allo sviluppo di corpi e oggetti digitali indossabili (abiti, scarpe…), Burberry ha creato accessori e avatar NFT per il videogioco Blankos Block Party di Mythical Games; Dolce & Gabbana ha collaborato con la piattaforma UNXD per la sua collezione Genesi (sia fisica sia digitale); Balmain ha realizzato una serie di avatar NFT a tema Barbie insieme a Mattel e Nike ha acquistato RTFKT (si pronuncia “artifact”), una compagnia specializzata in scarpe digitali NFT. Le serie più popolari di arte NFT, per esempio Cryptopunks e Bored Ape Yacht Club, sono pensate per funzionare come immagine del profilo sui social (anche Twitter ora le supporta). Non sono alla fine altro che una particolare categoria di avatar 2D che, in certi casi, possono essere anche personalizzati. Grazie a una collaborazione tra Champion e Tafi, sarà per esempio possibile vestire con abbigliamento Champion le immagini di profilo della serie NFT Non-Fungible People.

La forza della digitalizzazione sta nella non unicità degli oggetti: un oggetto digitale può potenzialmente essere replicato all'infinito e ogni copia è identica alle altre. Ma questa mancanza di unicità piace poco all’industria della moda, che si basa sul concetto del lusso e cioè della scarsità degli oggetti che vende. Per questo motivo anche le collezioni di moda digitale non basate su blockchain, collezioni di cui abiti e accessori potrebbero quindi essere distribuiti in un numero illimitato di esemplari, vengono spesso distribuite invece in edizioni limitate e possono quindi andare “sold out.” E sempre per questo motivo l’industria della moda è molto interessata alla promessa della blockchain di far concludere l’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, renderla nuovamente unica ed elitaria. O almeno, questo sarebbe il suo obiettivo: siccome la blockchain è decentralizzata e non ci sono autorità che controllano quello che viene registrato al suo interno, è facile registrare ulteriori copie di oggetti digitali (in quanto sono riproducibili senza problemi). E nessuno può fare molto se, come l’artista Mason Rothschild, registri versioni digitali “tarocche” delle borse Birkin di Hermès. Versioni che tra l’altro sono state ulteriormente falsificate, sempre su blockchain, da altre persone.

Gli oggetti digitali indossabili e la gestione della loro proprietà tramite blockchain sono considerati importanti per la realizzazione del metaverso, l’evoluzione di internet prospettata da compagnie come Facebook (che ha persino cambiato il suo nome in Meta), Microsoft, Epic Games e Nvidia. Secondo il progetto del metaverso, in futuro il confine tra mondo virtuale e fisico sarà ulteriormente sfumato rispetto a ora: non solo il corpo verrà progressivamente digitalizzato, cioè non solo il fisico andrà incontro al virtuale, ma ciò che è virtuale entrerà a far parte del mondo fisico grazie a tecnologie come realtà aumentata, mista e persino ologrammi. Già alla metà degli anni 2000 Adidas e Armani hanno realizzato oggetti digitali indossabili per i mondi online di Second Life di Linden Lab, ora potete vestire Ralph Lauren nella chat con avatar 3D Zepeto, Balenciaga ha creato una propria divisione dedicata alle attività nel metaverso e così ha fatto anche OTB, la compagnia che possiede marchi come Maison Margiela e Diesel, che ha lanciato la sua collezione di abiti e scarpe NFT D:VERSE promettendo che saranno indossabili in mondi virtuali. Secondo la banca di investimenti Morgan Stanley, il mercato della moda e del lusso nel metaverso potrebbe valere 50 miliardi di dollari entro il 2030. Non importa se è una valutazione realistica: è indicativa dell’interesse stimolato dal metaverso nel mondo della speculazione finanziaria.

Uno dei pilastri del metaverso, secondo l’investitore Matthew Ball che può esserne considerato il più influente teorico, è la “interoperabilità,” cioè la possibilità di portare i nostri beni digitali (come gli abiti indossati dal nostro avatar, ma anche proprio il nostro avatar) attraverso tutte le possibili esperienze. In teoria, la blockchain garantirebbe questa possibilità e in questo starebbe la sua importanza. In realtà è improbabile che qualcosa del genere possa mai accadere: esperienze costruite con diversi strumenti di sviluppo e con stili diversi dovrebbero tradurre nel loro linguaggio e nel loro stile ogni singolo oggetto, anche se è stato acquistato altrove e quindi senza un ricavo per chi ha sviluppato quella esperienza. Per esempio, un’ arma acquistata nel videogioco di guerra realistica Call of Duty di Activision Blizzard dovrebbe diventare cartoonesca in Fortnite e funzionare secondo le regole del combattimento parodiato nel gioco, con Epic Games che dovrebbe implementarne l’asset pur essendo stato pagato ad Activision Blizzard.

La moda digitale è anche spesso presentata come alternativa sostenibile alla fast fashion, alla moda usa-e-getta, e in generale come un modo per ridurre l’impatto ambientale dell’industria della moda tradizionale, dalla progettazione alla produzione, dalla distribuzione al problema dei resi. Da questo punto di vista, stanno venendo sviluppati e sono in parte già disponibili modi per provare virtualmente i vestiti, attraverso filtri come quelli di Snapchat o su un nostro realistico avatar 3D, prima di acquistarli online. Il problema è certamente reale: negli USA, il numero di indumenti comprati da ciascuna persona è quintuplicato rispetto al 1980. E i danni della fast fashion sull'ambiente sono discussi almeno dalla metà degli anni 2000. Nel 2008, la rivista Fashion Theory pubblicò per esempio un intero numero dedicato alla moda sostenibile chiedendosi, nell’introduzione della curatrice Regina A. Root, “cosa dovremmo indossare per salvare la Terra dall’essere umano?” Il primo articolo, SLOW + FASHION—an Oxymoron—or a Promise for the Future…? di Hazel Clark, proponeva di prendere ispirazione dal movimento slow food promuovendo l’uso di risorse locali, la riduzione dei passaggi tra chi produce e chi usa i vestiti e la produzione di abiti capaci di durare nel tempo.

Secondo chi la sostiene, è qua che la moda digitale può intervenire. “Il gruppo fondatore di The Fabricant descrive la compagnia come un cambio di paradigma nell’industria della moda, descritta come conservatrice, esosa di risorse, esageratamente riservata e basata sullo sfruttamento della forza lavoro” scrivono Natalia Särmäkari e Annamari Vänskä in ‘Just hit a button!’ – fashion 4.0 designers as cyborgs, experimenting and designing with generative algorithms, pubblicato sull’International Journal of Fashion Design, Technology and Education. “La speranza di The Fabricant è che le persone inizino a usare vestiti durevoli nelle loro vite fisiche, e  invece comprino, indossino e personalizzino abiti digitali” per esprimersi. Ma, come scrive Terry Nguyen su The Vox, è improbabile che la moda digitale possa mai sostituire anche solo in parte quella fisica, anzi, la velocità della fast fashion è garantita proprio dal progresso tecnologico e dall’adozione di intelligenze artificiali capaci di velocizzare la filiera, predire le tendenze e automatizzare i processi. Inoltre, come fa notare di nuovo anche Nguyen, la registrazione di un contratto di proprietà di un oggetto digitale come NFT su una blockchain è un processo che può essere energeticamente costoso. Ethereum  è considerata responsabile dell’emissione di 21,4 mila tonnellate di anidride carbonica al giorno e 7,81 milioni di tonnellate all’anno (sono molte di più secondo altre valutazioni). È difficile fare confronti con altri processi, ma possiamo affermare che, anche seguendo le valutazioni più ottimistiche, Ethereum emetta quasi quanto un piccolo stato come il Costa Rica (7,91 milioni di tonnellate di anidride carbonica nel 2020) e consumi un quantità di energia comparabile o persino superiore a quella di un servizio molto più grande come Facebook.

A volte la moda digitale ha sperimentato con abiti impossibili nel mondo fisico: scarpe avvolte da fiamme, strutture che violano la legge di gravità, materiali che non esistono. Ma in realtà si è per ora concentrata su oggetti digitali indossabili, coerenti con quelli tradizionali o su versioni virtuali di vestiti (e scarpe e accessori) tradizionali, portando alla fine poca innovazione rispetto a quella che possiamo trovare in una collezione di Iris van Herpen. Pure Modenova di DressX ha dichiarato a Forbes che gli oggetti digitali indossabili dovrebbero sempre rispettare i limiti e le necessità di vestiti, scarpe e accessori fisici. L’industria tradizionale della moda è interessata alla moda digitale per il contributo che può dare al commercio e alla promozione di quella fisica. Nonostante i guadagni previsti quello della moda digitale (fuori dal contesto videoludico) non è considerato un mercato maturo ed economicamente indipendente. L’inclusione di abiti e avatar firmati dall’alta moda nei videogiochi è per lo più un modo per promuovere i marchi tra il pubblico che guarda chi gioca su piattaforme di live-streaming come Twitch di Amazon; un pubblico giovane non più raggiungibile attraverso i tradizionali canali promozionali. Come detto, gli abiti digitali interessano all’industria della moda perché danno la facoltà alle persone di indossarli prima di acquistarli online. Ma non solo, anche  per la possibilità di far promuovere le collezioni a influencer senza dover spedire i prodotti (si possono aggiungere digitalmente alle loro foto e ai loro video). È quello che ha già fatto per esempio la piattaforma di vendita online Farfetch, collaborando con DressX. Non c’è neanche bisogno di nascondere che l’abito sia digitale: basta presentare la scelta della compagnia come guidata da sensibilità ambientaliste, e la campagna promozionale può iniziare quando il prodotto fisico magari ancora neanche esiste e con spese ridotte. Anche l’influencer o la modella può essere digitalizzarsi, come l’influencer Lil Miquela (che ha pure collaborato con Prada) e le tre modelle virtuali della scuderia dell’agenzia HUM.AI.N. Corpi virtuali di ogni etnia e di diversa identità di genere e orientamento sessuale, scevri da scandali e polemiche in cui a volte inciampano infuencer in carne e ossa. Diversità e rappresentazione a portata di click, senza la scomodità di dover creare strutture sociali e opportunità di carriera, che possano elevare la voce di chi fa parte di categorie marginalizzate dall’industria della moda. 

Barbie Paris di Balmain

Barbie Paris di Balmain | Balmain

Ma la moda digitale può diventare l’occasione per ripensare la cultura e la tradizione della stessa come design del corpo, non dell’abito. Come avrete notato, in questo articolo non ho mai fatto distinzione tra corpi e abiti digitali: ho messo insieme gli avatar NFT di Non-Fungible People, gli abiti digitali di DressX e i personaggi realizzati da Balenciaga ed Epic Games per Fortnite, personaggi che hanno specifici corpi e indossano specifici vestiti. Questo perché questa distinzione, nel mondo virtuale, non esiste. Un filtro di Snapchat o Instagram può modificare l’aspetto di quello che interpretiamo come il nostro corpo fisico, aggiungere un oggetto indossabile come le scarpe di RTFKT o fare entrambe le cose. Nel mondo virtuale, facce e corpi sono cose che indossiamo, tanto quanto un abito, e lo sviluppo di tecnologie come realtà aumentata e realtà mista potrebbe progressivamente portare questi corpi digitali nella nostra vita quotidiana fisicità. Va anche notato che quello che consideriamo il corpo è già qualcosa di modificabile e parte di come ci presentiamo ed esprimiamo: scienza e tecnologia stanno solo aumentando gli strumenti a nostra disposizione. 

La moda ha sempre contribuito a definire cosa sia il corpo umano e il suo ruolo nella società. Come ha spiegato Judith Butler a partire dagli anni 90, la moda contribuisce per esempio a definire il nostro corpo come un certo genere (di una certa etnia, di un certo orientamento sessuale e classe sociale). La moda ci aiuta nella performance del nostro essere uomo o donna, aiuta a definire le norme dell’uomo e della donna e ci aiuta a rispettarle. La moda può quindi consolidare le performance di identità di genere che sfuggono a questa opposizione binaria. Può creare nuovi corpi che non imitino più forme e funzioni umane per nuove società (anche) virtuali, che non siano la mera riproposizione dei cicli di produzione e consumo prospettata nel metaverso descritto da Meta. Secondo uno studio di Laura Barbier e Valerie Fointiat sull’efficacia di alcuni meccanismi psicologici e sociali in ambienti virtuali, usare avatar non-umani pare persino capace di “liberarci dalle regole delle interazioni sociali che avvengono offline.”

Così, la moda ha contribuito a definire cosa sia l’essere umano. È un processo ben spiegato da Vänskä in How to do humans with fashion: Towards a posthuman critique of fashion, pubblicato sull’International Journal of Fashion Studies, in cui la viene raccontata come “un atto di ominizzazione e una teoria dell’umano.” Non più “moda [intesa] come vestirsi, come prodotto e rappresentazione di sé ma come una pratica critica in cui è centrale il pensare e il definire i limiti dell’essere umano.” Come scritto già da Judith Butler nel suo libro Undoing Gender (Fare e disfare il genere in italiano), cosa sia l’essere umano non è infatti qualcosa di definito e definitivo: l’essere umano è, come il genere, una performance, qualcosa che viene continuamente negoziato e che è stato continuamente negoziato durante la storia umana. “I requisiti perché alcune persone siano riconosciute come esseri umani sono legate al contesto sociale e sono mutevoli” scrive Butler (traduzione mia). “E a volte proprio i requisiti che permettono a certe persone di essere riconosciute come esseri umani privano certe altre persone della possibilità di essere riconosciute come tali, creando una differenza tra chi è umano e chi è meno-che-umano” e, tra le altre cose, escludendo chi che non è riconosciuto come umano o come completamente umano (come la persona non bianca nell’occidente del nord globale) dal diritto di partecipare pienamente alla vita politica. Basti pensare come la moda sia uno degli elementi che più fortemente distingue ciò che intendiamo come essere umano, che è sostanzialmente l’animale che si veste, da ciò che intendiamo come animale non-umano, che è sostanzialmente l’animale che non si veste. Nel libro biblico della Genesi, il primo atto dell’essere umano dopo aver mangiato il frutto dell’albero proibito è proprio quello di coprirsi, di vestirsi (Genesi 3:7), e se un animale non-umano come il cane viene oggi vestito, spiega Vänskä, è perché in effetti non è più un animale non-umano ma un “pet,” qualcosa di intermedio sta in mezzo, parte del nucleo familiare.

Nella moda digitale, l’essere umano collabora con la macchina, il non-umano, che si fa co-autore del design. Nel 2017 Amazon ha iniziato a sperimentare l’applicazione alla moda del machine learning: nuovi design frutto della sperimentazione di intelligenze artificiali. E nel 2019 l’intelligenza DeepVogue (della DeepBlue Technology) è stata premiata a una competizione internazionale di innovazione nella moda a Shanghai, in cui gareggiava contro esseri umani. Le case di moda possono lavorare insieme a questi algoritmi, come fa The Fabricant, che sfrutta intelligenze artificiali per creare spunti a cui ispirarsi e per generare i pattern, da cui vengono scelte le “stampe” che appariranno sui suoi abiti digitali. Sono processi che interessano alla grande industria della moda perché promettono di velocizzare ulteriormente la produzione , di potenziare la fast fashion grazie ad algoritmi capaci di suggerire e inventare le tendenze di domani, studiando i trend di ieri. Ancora una volta, la tecnologia è usata per prevedere e controllare il futuro basandosi sul passato, con tutti i limiti che questo approccio ha mostrato già mostrato in passato. È il risultato della nostra fede nella possibilità che tutto sia scientificamente comprensibile, calcolabile, simulabile: prevedibile. Ma quando ci affidiamo agli algoritmi rinunciamo anche a parte di quella che chiamiamo autorialità per abbracciare il contributo del non-umano alla creazione dell’abito, del corpo, dell’essere umano. 

È un contributo che andrebbe rispettato e valorizzato. L’era geologica in cui viviamo è stata teorizzata come “Antropocene” , definita dall'impatto dell’essere umano, una forza capace di plasmare il clima e la geologia del pianeta. L’ uomo è una forza geologica non-umana, che genera e sfida  il cambiamento climatico. Per superare e sopravvivere all’Antropocene abbiamo bisogno, allora, di una moda post-umana. Con questo non intendo una moda che neghi l’essere umano, che lo abbandoni,  una moda che punti al mero superamento e potenziamento di ciò tramite la tecnica. Parlando di moda “post-umana” intendo una moda che ripensi come siano stati definiti i confini tra ciò che è umano e ciò che umano non è, una moda che sappia togliere l’essere umano dal centro della nostra comprensione della realtà e dalla cima delle scale gerarchiche che abbiamo costruito. Capace di posizionarlo accanto e insieme al non-umano. Serve, insomma, costruire un nuovo rapporto tra ciò che abbiamo sinora considerato distinto da noi e inferiore, con la macchina e con la cosiddetta “natura.” Anzi, in questa ottica è ora necessario superare la distinzione tra “cultura” umana e “natura.” E la moda digitale può essere un importante strumento per riuscire in questa impresa.

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Globale - 2022
Tecnologia
Questo articolo fa parte della issue:
#4 Oltremoda
Matteo Lupetti

Matteo Lupetti è un critico marxista specializzato in videogiochi, fumettista indipendente e direttore artistico del festival di narrazioni di realtà CreteCon.

Pubblicato:
10-05-2022
Ultima modifica:
10-05-2022
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