Uno scambio sulla poetica e la memoria di provincia con l'autore de "I Calabiani", recentemente edito da Oligo Editore.
Sebbene snobbato dalla grande editoria, Francesco Permunian, scrittore veneto e mitteleuropeo al tempo stesso, è uno degli autori più rappresentativi della letteratura italiana degli ultimi vent'anni. I suoi romanzi ambientati nel Polesine, e in generale nella provincia veneta più dimenticata, si configurano come uno strano incrocio di cronaca provinciale, letteratura esistenzialista, esercizio manierista sulla grande letteratura europea. Nella scrittura di Permunian aleggiano le fascinazioni di una certa visione spietata del mondo (Bernhard, Céline, Cendrars) e una stramba teatralità da commedia dell'arte barocca. Ne nasce una prosa desueta, gravida di allusioni, che ricorda la finta trattatistica di Manganelli, il bestiario medioevale o la semplice maldicenza di paese.
Bizzarro che un autore così appartato viva di questa doppia dimensione, locale ed europea al tempo stesso, in consonanza con le caratteristiche proprie della letteratura italiana contemporanea. Un tratto distintivo della produzione italiana dagli anni Duemila a oggi è stato tendere a un modello di letteratura globale, prima con la sbornia nordamericana degli anni Zero e poi con la scoperta dei classici sudamericani degli anni Dieci, che però si ripiegasse nell'intimismo di casa nostra (che fosse l'autofiction o per l'appunto la letteratura di provincia). Permunian si è adoperato nella stessa direzione ma percorrendo vie traverse e spostando l'asse su un tipo di letteratura più "gotica" o comunque animata da umori saturnini. Per questo, volente o nolente, l'autore del Polesine è testimone ed espressione di una stagione letteraria che non si può ignorare.
Come non si può tacere dell'estrema raffinatezza del suo lavoro di scrittore, una precisione nell'uso della parola che si ritrova anche nell'ultimo libro, I calabiani, una sorta di memoir stravolto in cui è centrale il tema dell'infanzia come luogo del trauma. L'autore, in un atto di autobiografismo piuttosto desueto nella sua produzione, racconta la vita agra nel Veneto rurale di metà anni Cinquanta, rapportandola alle esperienze, salvifiche e grottesche, di un bambino che si approccia per la prima volta al mondo. Se nei precedenti romanzi la voce dell'autore si ammantava di un tono sibillino grazie al filtro della letteratura, stavolta a rendere fallaci le vie battute fra questi borghi sperduti nella Pianura Padana è lo spaesamento di una memoria che fatica a mettere a fuoco i ricordi di un'infanzia lontana. In occasione dell'uscita di questo prezioso libricino l'ho contattato per sottoporgli qualche domanda sulla sua poetica e sulla letteratura in generale.
Giovanni Bitetto - Il tuo lavoro si pone all’incrocio di diverse direttive: la provincia, la rielaborazione di un certo immaginario letterario mitteleuropeo e gotico, un intimismo dal sapore esistenzialista. A dominare queste narrazioni c’è il Sud Est del Veneto, questo luogo dell’anima paludoso, ricco di bisbigli e di bizzarrie da cui si origina ciascuna declinazione della tua scrittura. Qual è stato il punto di incontro fra l’ambiente che ti trovi inevitabilmente a raccontare e le tue fascinazioni di lettore, ancor prima che di scrittore?
Francesco Permunian - Il mio lavoro di scrittore si basa, essenzialmente, sui ricordi. Sull’ostinata volontà di mantenerli in vita attraverso l’esercizio della scrittura. Tutta la mia opera affonda perciò le radici nel passato. In un tempo perduto ma non dimenticato da cui, a tutt’oggi, trae svariati umori, aggrovigliati amori e amorazzi, nonché allucinate e risibili ossessioni.
Insomma l’intero mio mondo letterario, simile a un vecchio e ombroso maniero apparentemente fuori da ogni moda e ogni canone, si regge tuttavia in virtù di solide e antiche mura che, paradossalmente, affondano le loro fondamenta tra le sabbie mobili di un vagolabile passato che non vuole passare.
GB - Seguendo il filo dei tuoi ragionamenti, di quelli che esprimi su carta, si ritrova forte questo contrasto fra interno e esterno. Fra l’ambiente circostante e le ubbie personali, d’altronde ogni tuo libro può sembrare la cronaca di un alienato o anche una wunderkammer di esperimenti alchemici finiti male. Come si concilia la volontà di narrare la concretezza di una storia e quella di dare forma a paturnie impalpabili?
FP - Stante siffatta situazione di partenza, dovendo cioè fare i conti con la realtà quotidiana e al tempo stesso con i fantasmi del passato (ossia con l’interno e l’esterno, come dici tu), sono obbligato giocoforza a utilizzare – per così dire – due pedali onde sviluppare le mie storielle: uno – di stampo realistico - per descrivere la realtà che vivo ogni dì in quell’angolo di provincia tra il Veneto e la Lombardia in cui ho scelto di vivere. L’altro – il pedale “fantastico” – per sublimare quella stessa realtà quando mi diventa insopportabile; quando all’arrivo di ogni estate sciami di turisti e vacanzieri assaltano e intasano le strade e le spiagge del Garda trasformandolo e sfigurandolo in un orrendo e chiassoso lunapark a cielo aperto.
Bene: pigiando quindi su tali pedali – muovendomi su due diversi e intrecciati piani di scrittura – alla fine pervengo a un risultato grottesco. Che poi è la cifra della mia scrittura, con la quale mi sforzo di mantenere saldamente un piede tra la gente comune e un altro piede tra i fantasmi del passato. Detto altrimenti: con un orecchio presto ascolto alle voci dei vivi mentre con l’altro orecchio, ben più sensibile e segreto, percepisco invece i sussurri dei morti. Le loro malie. Le loro insistenti e inquietanti litanie che sembrano risalire da qualche infero anfratto di Manganelli, se non direttamente da Eusapia, la città dei morti descritta da Calvino nelle sue Città invisibili.
GB - L’arma principe di uno scrittore è ovviamente lo stile. Il tuo studio sulla lingua è maniacale, anche se non artificioso. Riporti con naturalezza la penna dei grandi scrittori della tradizione europea, pur declinandola nel birignao, in questo senso sei parente della linea anticlassica della letteratura italiana, quella che va da Ruzante e Folengo e arriva a Landolfi. La tua scrittura è comica e sadica al tempo stesso. Quali studi compi sulla tua scrittura?
FP - Come ho cercato di spiegare, io provo a mescolare l’alto e il basso. Che è un esercizio un po’ sadico e maccheronico, lo riconosco. Sempre ammesso, e non concesso, che abbia senso parlare di “zone alte” e di “zone basse” riferendoci al corpaccione di quella smandrappata signora di provincia che pomposamente si chiama Madame Letteratura.
In altri termini, nella mia pratica di scrittura, io provo a far coesistere la figura del bibliotecario - quale in effetti sono stato per 40 anni – a quella del solerte raccoglitore di pettegolezzi e notiziole rastrellate sui vari quotidiani nazionali e locali: un archivio sterminato di piccole infamie e volgarità, ecco il mio archivio privato. Ecco la mia biblioteca ideale!
Adesso, per fortuna, posso scorrazzare sul web, evitando così di finire sommerso dai ritagli di giornale.
Il mio sogno segreto sarebbe comunque di ingabbiare tutta la realtà – diciamo, il mondo intero- dentro un solo e unico FALDONE che, a ben vedere, è la stessa operazione che Vincenzo Ostuni sta portando avanti da anni in campo poetico. Oppure si pensi al Diario di Piergiorgio Bellocchio, io adoro letteralmente i diari, gli epistolari, le memorie, le confessioni (false o veridiche, poco importa …) La forma romanzo non mi è mai interessata granché, preferisco di gran lunga il genere zibaldone, e il maestro ovviamente è e rimane Leopardi.
GB - Nel tuo ultimo libro, i Calabiani, prendi di petto il tema della memoria. Una tematica che, nella tua poetica, è sempre stata presente. Mi sembra che per te l’esercizio della memoria sia fallace, che il ricordo più che luogo di salvezza sia tempio dell’errore. E’ corretto dire che ogni ricordo è un bivio, e che spesso nel rimembrare prendiamo la via sbagliata, quella sconosciuta che ci porta in luoghi conosciuti, ma visti da una prospettiva straniante?
FP - Questo regesto di memorie è nato e cresciuto nel corso degli ultimi tre anni durante i quali ho assistito alla scomparsa dei miei genitori, ragion per cui mi sono spesso recato al paese natale per star vicino prima a mia madre e poi a mio padre. Ed è stato dunque là, tra quelle mura avite e vagabondando attraverso i campi dell’infanzia bruciati dal gelo, che piano piano, un brandello di memoria dopo l’altro, alla fine ho selezionato e costruito i Calabiani (da Ca’Labia, la borgata sorta nell’Ottocento attorno alla dimora dei conti Labia, latifondisti veneziani che acquistarono e bonificarono diverse terre nel Polesine veneziano).
Una selezione di memorie famigliari, quindi. Anche perché, come sosteneva Pound, la memoria è sempre e comunque “il miglior critico”.
Non si tratta di un romanzo, si badi bene, oppure di una narrazione romanzata. Anche perché, fondamentalmente, io non scrivo romanzi eccezion fatta forse per Nel paese delle ceneri, un racconto lungo pubblicato da Rizzoli nel 2003.
Di sicuro i Calabiani non lo è. Non lo è soprattutto se rapportato agli standard dell’attuale mercato editoriale, sempre più simile a uno smisurato e caotico romanzificio nazional popolare che funziona secondo le regole del più vieto e tradizionale canone realistico (e ciò vale anche per i cosiddetti romanzi “distopici” o “neogotici”).
Più vicino al diario che alla forma romanzesca, i Calabiani assomiglia piuttosto a un libro d’ore del tempo perduto e ritrovato, senza rinunciare tuttavia all’invenzione che si sviluppa attraverso dei personaggi lunatici che abitano e si agitano in un Polesine d’antan, tutti descritti attraverso la lente deformante della parodia. La mia vera musa.
Quanto al Polesine – per l’esattezza, l’estremo lembo del Polesine veneziano – io lo conosco bene, ci sono nato ed ci ho vissuto per quasi trent’anni.
Infanzia e giovinezza le ho passate là, in quelle terre basse e monotone che si stendono tra l’Adige e il Po. Io stesso sono nato nell’anno della grande rotta del Po – il 1951 - e ne ho visto tutte le conseguenze con la crisi dell’agricoltura e la inevitabile emigrazione di massa verso altri centri del Nord. Specie in Piemonte e in Lombardia, ma anche all’estero.
Fu un’infanzia, la mia, nata tristemente adulta. Già gravata e attraversata da “voci” e allucinazioni di natura palustre, qual era in effetti il Polesine quando io venni al mondo.
Tutte cose queste – i ricordi, i dolori, la rabbia, e un’infinita malinconia - che ho riversato nei miei libri. Dove la terra natia non appare affatto simile a una cartolina per turisti, come viene oggi presentata, bensì alla sempre rimpianta terra perduta dell’infanzia.
GB - Nel tuo libro precedente, Giorni di collera e di annientamento (Ponte alle Grazie, 2021), metti in scena una satira non solo del mondo culturale ma anche della nostra contemporaneità pandemica. Mi sembra una ulteriore rielaborazione della tua poetica. Di solito il tempo dei tuoi libri è come sospeso, è il ciclo perpetuo della provincia che vive nella bruma dell’immobilismo, e la cronaca di oggi è vissuta come la cronaca di cento anni fa. In Giorni di collera e di annientamento il ritmo invece è più indiavolato, la critica è diretta, è un po’ il tuo A colpi d’ascia di bernhardiana memoria. Come mai questa esigenza di confrontarsi con le miserie della realtà spicciola?
FP - Potrei risponderti con la definizione di Provincia che, anni fa, diedi a Matteo B. Bianchi per il suo Dizionario affettivo della lingua italiana: “Che immenso e immondo letamaio è la provincia! Eppure non esiste letame migliore per la penna di uno scrittore, agli occhi del quale il mondo intero è poco più di una provincia”.
Da allora non è cambiato granché. Ancora oggi io sono sempre lì che rimesto e rimugino sprofondato fino al collo dentro a quella maledetta fanghiglia di un’eterna provincia fatta di noia e di conformismo. Nonché di ridicole tragedie e, a volte, di certe situazioni aberranti di cui fornirò un elenco nel mio prossimo libro in uscita ai primi d’autunno per Ponte alle Grazie il cui titolo, non a caso, suona così: Elogio dell’aberrazione e altre piccole infamie.
GB - A proposito di mondo culturale tu, sebbene ormai occupi un posto centrale nei gusti e negli interessi di chi aspira a fruire di un certo tipo di letteratura, vivi abbastanza defilato. E’ un tratto costitutivo anche della tua poetica, che trae forza dalla lateralità, dallo sguardo obliquo che, da una posizione di minorità, può indicare nuove prospettive. In fondo, possiamo dire che fin dal tuo primo libro, Cronaca di un servo felice, ambisci a rovesciare la dialettica servo – padrone travestendoti da servo. Come vivi la tua condizione di scrittore appartato? Scelta o necessità?
FP - Direi che è più che altro una questione di carattere. Di orgoglio e indipendenza intellettuale, in modo da non dover rendere conto a nessuno. Perché, di fatto, io so badare a me stesso. E ai miei fantasmi, che tengo debitamente a bada con la scrittura.
Non amo il chiasso e mi fido di poche persone semplici e schiette. Gente vera, visto che detesto gli snob e gli ipocriti e i voltagabbana di ogni fede e partito.
Ed è così, avendo questo carattere schivo e solitario, che mi è sempre risultato impossibile far parte di una qualsiasi combriccola letteraria o di una qualsivoglia moda culturale. Tant’è che non ho mai praticato neppure il cosiddetto “mestiere delle lettere”, andando a lavorare nelle accademie o nell’editoria con tutti gli inevitabili compromessi e piaggerie che ciò avrebbe comportato.
A ripensarci, l’avrei considerata - tale eventuale mia scelta - un venire meno a quella condizione di isolamento maniacale, da autentico servo della scrittura, di cui sento il bisogno per scrivere in una maniera quantomeno decente, se non proprio soddisfacente.
E poi devo pur dirlo: la postura da servo mi è congeniale. La considero un punto di vista privilegiato. Pensa ad esempio al Servo di Byron, il romanzo di Franco Buffoni in cui si immagina che un cameriere racconti la vita del proprio padrone (il poeta Byron) colmando così le lacune delle sue Memorie. Oppure di quell’altro servo, un giovane di appena 13 anni di nome Semyon, che assiste impotente alla scena in cui Gogol butta nel fuoco e distrugge la seconda parte delle sue Anime morte. E potrei continuare ancora, trascorrendo per ore da servaggio a servaggio … da schiavitù a schiavitù!
GB - Filippo Tuena, Antonio Franchini, Emanuele Trevi, Edgardo Franzosini, lo stesso Michele Mari. Sono tutti scrittori che, partendo dalla letteratura, originano le proprie narrazioni, chi speculando e ricostruendo tramite il documento, chi affrontando un determinato modo di scrivere, per dire qualcosa sul contemporaneo adoperando le specificità dello strumento letterario. Sono dei moderni manieristi a cui mi sento di accumunarti. Come abbiamo già detto, nella tua scrittura riecheggiano molte evidenti fascinazioni che poi sono rielaborate nel tuo sguardo personale. Ovviamente questa è solo una mia ipotesi, relazioni che ho istituito a partire dalle mie letture.
Tu, nella scena contemporanea, ti senti imparentato con qualcuno?
FP - Ti faccio solo questi due nomi, entrambi veneti: Francesco Giusti – un poeta veneziano che di recente ha pubblicato una sua raccolta (Quando le ombre si staccano dai muri) per Quodlibet – e Vitaliano Trevisan, un grande autore purtroppo scomparso da poco del quale l’ultima cosa che ho letto – e che suggerisco a tutti – è Il delirio del particolare (Oligo editore) un dramma da camera magnificamente portato in scena da Maria Paiato.
Anche parlando di Giusti e Trevisan, come vedi, si ritorna sempre lì. A quei due “piani” o punti di vista di cui ti ho già parlato: il fantastico e l’intimistico (che germogliano dalla poesia) uniti al realistico di una prosa affilata e “crudele” com’è quella del romanziere vicentino.
In conclusione, miscelando per bene questi due elementi e aggiungendoci qualche grammo di visionarietà e di magia allucinatoria, alla fine si ottiene quella “musica” straniante fatta di bisbigli e sussurri (Juan Rulfo docet …) che innerva e sostiene il ritmo della mia prosa.
è un autore italiano. Ha scritto diversi libri, tra i quali Il gabinetto del dottor Kafka (Nutrimenti, 2013), Ultima favola (Il Saggiatore, 2015) e Costellazioni del crepuscolo (Il Saggiatore, 2017).