Per convertire il dolore in bellezza - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Marina Abramović, The Artist is Present, 2010
Marina Abramović, The Artist is Present, 2010

Per convertire il dolore in bellezza

Un confronto con Giorgia Tribuiani su arte, realtà, ossessioni e intimità alla luce del suo secondo romanzo "Blu" (Fazi, 2021).

Marina Abramović, The Artist is Present, 2010
Intervista a Giorgia Tribuiani
di Gioacchino De Chirico
Giorgia Tribuiani

(1985) ha pubblicato la raccolta di racconti Cronache degli artisti e dei commedianti (Tespi, 2008) e i romanzi Guasti (Voland, 2018) e Blu (Fazi, 2021).

Gioacchino De Chirico

è giornalista culturale e consulente editoriale. Collabora con la rivista online PulpLibri. Dal 2016 dirige il centro culturale Moby Dick, a Roma. È presidente del premio Biblioteche di Roma, componente del gruppo Amici della domenica per il Premio strega e membro della giuria del Premio Malerba.

Trasformare l’ossessione in opera d’arte. Questo l’obiettivo dichiarato di Giorgia Tribuiani, nata a San Benedetto del Tronto e attualmente residente a Pescara.

Tribuiani si è laureata in Lettere e Filosofia presso l’università Lumsa di Roma e ha coltivato da subito un forte interesse per l’arte contemporanea, concettuale e performativa. Amante della scrittura, Tribuiani ha frequentato la Bottega di narrazione di Giulio Mozzi per poi diventare uno dei dieci docenti che in quell’ambito formano nuove figure autoriali.

L’abbiamo incontrata per parlare proprio del rapporto tra arte contemporanea e scrittura, alla luce del suo ultimo libro, Blu, Fazi editore, (pp 256, euro 16,00, ebook 9,99) che è uscito a fine marzo del 2021 e che bene si lega al suo romanzo di esordio, Guasti, Voland edizioni, (pp 128, euro 14,00) uscito nel 2018.

Gioacchino De Chirico - Dove trova le sue radici il fascino per l’arte contemporanea?

Giorgia Tribuiani - Fin da molto giovane sono rimasta affascinata dalle modalità dell’arte contemporanea. Provo attrazione per la loro dimensione al contempo concettuale e materica.
Nelle performance, in particolare, il corpo umano assume un ruolo centrale. È valorizzato, è interpretato, diventa il medium per eccellenza dei significati che l’artista intende veicolare.
Il corpo è spesso manipolato e, a seconda dei casi, assume ruoli molto attivi o del tutto passivi. Non manca, poi, nella performance art – e qui c’è il collegamento con l’arte di Blu –, la pratica della ripetizione.

GDC - È il modo in cui l’ossessione di noi esseri umani - nei disturbi che ci portano a ripetere spesso gli stessi gesti – che costruisce un ponte involontario nei confronti di queste espressioni artistiche? 

GT - Sì, nello specifico il disturbo ossessivo-compulsivo presenta aspetti fortemente rituali. La ritualità (così come la ripetizione) è caratteristica fondante di questo disagio psichico, come pure è il fondamento di moltissime opere di performance art. In altre occasioni ho avuto modo di affermare che il disturbo ossessivo-compulsivo non è mai rappresentato completamente (cioè dando voce anche alla sua metà ossessiva, e non solo alla compulsione) nei libri o nei film, fatta esclusione per the Aviator, il film di Scorsese con Leonardo Di Caprio.

Da parte mia, non voglio che questo disturbo sia ridotto alla mania di lavarsi le mani venti volte al giorno o di mettere continuamente in ordine oggetti.

 

GDC - Cos’è allora che questo disturbo può offrire all’arte escludendo la pura e semplice tecnica della ripetizione? Cos’è nel profondo il disturbo ossessivo-compulsivo?

GT - Prima di scrivere Blu, sono andata a intervistare molti artisti e artiste di performance art. Ho letto libri, articoli e interventi. Sono rimasta incantata dalla performance di Kyrahm, Ecce (h)omo, Guerrieri. Mi trovavo a Venezia per la Performance Art Week e ho vissuto esperienze indimenticabili.
Il disturbo ossessivo-compulsivo comporta spesso pensieri intrusivi, una vera e propria “sopraffazione della mente da parte delle immaginazioni”, delle colpe e delle ansie, e allora ho pensato che avrei potuto mettere in connessione questo con un concetto fondamentale della performance art: quello della “ferita-feritoia”.
Il disturbo – la sua metà legata all’ossessione – poteva diventare una feritoia attraverso la quale cercare la materia prima da trasformare in opera artistica.


GDC -
Per favore, può chiarire meglio questo concetto?

GT - Un termine di paragone che credo possa essere efficace è il teatro. Nel teatro l’attore si muove: da persona comune diventa il personaggio che interpreta. Nella performance art – stando a quanto mi hanno raccontato gli artisti che la praticano – il movimento è inverso: ci si muove dalla dimensione artefatta e di autorappresentazione a quella sempre più autentica di essere umano.

Nel romanzo è evidente come Blu, la bambina che interpreta i ruoli di figlia perfetta, amica perfetta, studentessa perfetta, lasci poi man mano spazio a Ginevra.

Giorgia Tribuiani

Giorgia Tribuiani | Foto di Basso Cannarsa

GDC - Veniamo ora a considerare un elemento importante del conformismo dominante. C’è un episodio in Blu che ora non vale la pena di raccontare ma che ci rimanda a un luogo comune piuttosto consolidato e assai deleterio.

GT - Sì, credo ci si riferisca a un’opinione diffusa circa il presunto legame tra genio e follia. A un certo punto, nel romanzo, l’insegnante riflette su alcune opere di arte concettuale, sulla scelta di “pescare” le tematiche tra le ossessioni, e domanda a voce alta quale sia l’elemento che le accumuna tra loro: la risposta ironica, amara, sprezzante e goliardica è: “la malattia mentale”. Una risposta che sembra avere come direzione di sviluppo semplicemente l’affermazione della normalità e il rifiuto di certe consapevolezze che urtano e disturbano.


GDC -
Il disturbo psichico in Blu, molto sostenuto anche da situazioni corporee. Ma pur sempre con la mente che mena le danze. Cosa completamente diversa avvenne qualche anno fa con la pubblicazione di Guasti dove, pur mantenendo un interessante dialogo tra arte e psicologia, sembra essere proprio il corpo a prendersi la parte centrale della scena.

GT - Sì, in Guasti ho pensato di immergermi nella profondità della nostra vita materiale, terrena. Ho cercato di spingere le riflessioni dei personaggi oltre la morte fisica. Senza nessuna mistica. Sono stati i sensi di Giada, che nel libro hanno acquisito nuova legittimità, a guidarmi nel percorso di conoscenza e di riflessione: è vero – sembra dirci Giada alla fine del romanzo – siamo vite effimere, ma non vale comunque la pena di godere del gusto di un cornetto o della brezza della sera?

GDC - Se si volesse rapidamente riassumere. La storia ci racconta di Giada che da poco ha perso il suo compagno, un celebre fotografo che le aveva fatto da mentore. Alla sua morte il fotografo subisce, già consenziente, un procedimento di plastinazione grazie al quale i reperti organici sono resi rigidi e inodori. E accetta anche che il suo corpo, così modificato, venga esposto in una mostra che celebra le tecniche del dottor Tulp – questo il nome del dottore nel racconto, mentre invece nella realtà queste tecniche sono state elaborate e affinate da un anatomopatologo tedesco di nome Gunther von Hagens (tutti conoscono le mostre Body World). Da quel momento, la relazione tra i due (ex) amanti è soggetta a un cambio radicale di passo.

GT - È proprio così. Dal punto di vista artistico performativo, il corpo del fotografo è un soggetto del tutto passivo. Imbalsamato, “disabitato”. È un contenitore, e non dialoga. Esattamente il contrario di quanto avviene con il corpo di Blu che, partendo dalla trasformazione del proprio disturbo ossessivo-compulsivo, interroga continuamente le persone che le stanno intorno.


GDC -
Ma allora qual è il senso del desiderio dell’uomo di farsi plastinare? Vuole sopravvivere a se stesso? Rifiuta il presente e il futuro per “accontentarsi” del suo passato? Vuole cercare di vincere il timore della morte attraverso il suo trasferimento, imbalsamato e sterilizzato, in una sala espositiva?

GT - Forse sì, forse prova a sopraffare il timore della morte, ma la scelta appare fragile, effimera e passiva.
Ecco, il timore della morte a mio avviso è più forte in Blu. In Guasti conosciamo un fotografo (che già in vita voleva eternare le emozioni, tutte le emozioni, anche le più piccole) che ha ormai fatto la propria ultima mossa, e la compagna Giada in cui l’ossessione della morte è determinata dalla scomparsa di lui.
In Blu, invece, non c’è un elemento contingente che ne determini lo sviluppo: la paura di Blu è legata a una vera ossessione, al disturbo più che ai “fatti”.



GDC -
Nel suo interesse per la performance art lei ha reso evidente come i sensi ricoprano un ruolo di grande rilievo nella realizzazione dell’opera.

GT - Giada, la protagonista di Guasti, è una donna che lavora con le immagini. Condivide l’esperienza artistica con il corpo senza vita del suo ex compagno. Lei stessa è fotografa ed è convinta che il senso della vista domini decisamente sugli altri.
Per la performance art non è così. I sensi coinvolti, di solito, sono di più. Oltre alla vista, ci sono soprattutto l’olfatto e l’udito (si pensi, nel mio romanzo, alla prima performance di Dora: all’impatto su Blu dei respiri amplificati dell’artista). Insomma, la performance art propone e prevede un’esperienza sensoriale pressoché completa e totalizzante.

 

GDC - Ora le chiedo di soffermarsi un momento sulla realtà quotidiana dei fenomeni ossessivo-compulsivi. Probabilmente la scienza segna qualche ritardo nella diagnosi e nella gestione di questi fenomeni. Non so. Ma quello che si evince da questa ricca e preziosa conversazione, di cui la ringrazio di cuore, è la possibilità che l’arte della performance possa avere addirittura una finalità terapeutica.

GT - Credo che percorso artistico e percorso terapeutico siano due strade differenti e non sovrapponibili: hanno certamente dei punti di contatto, ma non riesco a vederli come possibilità alternative l’una dell’altra.
Per me il sollievo dell’arte ha a che fare con il fatto che, se un disturbo ha bisogno di uscire, questa può a volte – in maniera parziale, magari – rappresentare una via costruttiva. Può, permettendoci poi di guardare i nostri mostri, di renderli accettabili e, perché no, utili a qualcun altro, avere una finalità lenitiva anche se non direttamente terapeutica.

 

GDC - Qual è allora, in conclusione, il senso ultimo della performance art?

GT - Credo che in generale la performance art provi a tendere il più possibile alla “verità” (o alle molteplici verità che possiamo cercare di raggiungere): l’arte riesce ad avviare percorsi di dialogo tra sensibilità apparentemente lontane.
Possono poi cambiare le modalità: come dicevamo, la performance art non passa attraverso la finzione, mentre altre arti (la scrittura, per esempio) spesso la cercano perché possa aiutarle a cercare, attraverso la trasfigurazione, una pur parziale verità.

 

GDC - C’è allora una sorta di “missione” o anche solo un obiettivo che l’artista deve raggiungere?

GT - Questo è forse molto soggettivo. Per quello che io sento, uno dei principali obiettivi è provare a prendere il proprio dolore e la propria disperazione per cercare di convertirli in bellezza a beneficio di altri.

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Giorgia Tribuiani

(1985) ha pubblicato la raccolta di racconti Cronache degli artisti e dei commedianti (Tespi, 2008) e i romanzi Guasti (Voland, 2018) e Blu (Fazi, 2021).

Gioacchino De Chirico

è giornalista culturale e consulente editoriale. Collabora con la rivista online PulpLibri. Dal 2016 dirige il centro culturale Moby Dick, a Roma. È presidente del premio Biblioteche di Roma, componente del gruppo Amici della domenica per il Premio strega e membro della giuria del Premio Malerba.

Pubblicato:
05-07-2021
Ultima modifica:
05-07-2021
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