La pratica del color-blind casting, che scollega il personaggio da qualsiasi aspetto che riguardi sesso, genere ed etnia, trova sempre più spazio nel cinema e nel teatro. Ci prepariamo a nuove crociate?
Nell’era del politically correct ciò per cui vanno indignandosi tutti è ciò che, più di qualsiasi altro discorso, non viene realmente recepito come dovrebbe. Ciò che non viene compreso, che rimane esclamazione aleatoria in una piazza in cui tutti possono arrabbiarsi con tutti, risulta sospeso in una bolla di supposizioni e sentito dire a cui non vanno contribuendo al meglio quotidiani e riviste specializzate, entrambi sovreccitati nel poter fare notizia, nessuno realmente interessato a farla nella maniera corretta. Colpa dei retweet, dei titoli-acchiappo, dell’attenzione del lettore vistosamente calata e focalizzata oramai semplicemente sull’immediatezza, su ciò che è presente qui e subito. Da questo i mille attriti, le diverse frizioni, il continuo malinteso che va creandosi tra reale disamina su ciò che avviene ai prodotti, sociali e culturali, della nostra epoca e opinione fondata su una percezione, su un sentito dire che danneggia i discorsi e inaridisce lo scambio.
A questa serie immotivata di scontri e posizioni divergenti è andato subentrando un fenomeno che, se nell’impressione collettiva è figlio dei tempi moderni, ha in realtà un background personale che si sposta per le arti, ma porta con sé in ognuna i suoi principi fondamentali. È la pratica del color-blind casting, che individua nella scelta di un interprete lo scollegamento da qualsiasi aspetto che riguardi il sesso, l’etnia e il genere in riferimento al personaggio. Così protagonisti della tradizione possono avere la pelle scura, personaggi notoriamente maschili vengono ridefiniti sotto dettami femminili, il tutto per accogliere una diversità che per troppo tempo è andata cercando un proprio posto nel flusso di rappresentazione culturale che una certa pre-definizione dei canoni sociali aveva vergognosamente escluso.
Scelta, quella del color-blind casting, portata ad indignare quando a porsi come nemico si è andato schierando un battaglione di salvatori richiamanti quella “autenticità” che, in un prodotto di fiction, rimane da sempre un concetto liminare e facilmente sovvertibile. Ciò che più di ogni altro meccanismo ha fatto saltare le rotelle di questa modalità già sapientemente insinuata all’interno delle decisioni produttive di alcuni, sempre crescenti, audiovisivi è diventata sinonimo di dialogo e riflessione: soprattutto grazie a una piattaforma mediale che, dalla sua, si fa sempre più veicolo di interrogazioni sul futuro dell’apparato visivo del domani, vista soprattutto la massiccia risonanza che come contenitore può riservare.
Si tratta di Netflix e della sua serie Bridgerton che insieme hanno acceso gli animi di una certa totalità, vista la cospicua dose di visibilità che il prodotto della fabbrica ShondaLand è riuscito a richiamare, sapendo di catturare facilmente l’attenzione degli abbonati della piattaforma e quella dei fan di un’autrice dalla notorietà risaputa quale Shonda Rhimes. La produzione della serie vede l’ambientazione d'inizio Ottocento andare a stridere con la presenza, tra i personaggi principali, del Duca di Hastings, interpretato per l’occasione dall’attore di origini zimbabwenesi Regé-Jean Page che, se inizialmente ha destato scalpore per la presenza vistosa e la malizia del suo rapporto con la co-protagonista Phoebe Dynevor, è andato poi scatenando dibattiti sull’effettiva partecipazione di individui non caucasici nella corte britannica ottocentesca e all’interno del lignaggio aristocratico della popolazione inglese. Interrogativi che si sono estesi alla corona regale della regina Charlotte dell’attrice Golda Rosheuvel, che pur ritrovando una reale possibilità di appartenenza straniera per la sovrana moglie di re Giorgio, portata avanti negli anni da studi e illazioni, ha comunque suscitato le dovute ritrosie da parte del pubblico.
Stesso pubblico che, fino a poco tempo prima, era del tutto estraneo a una scelta stilistica da parte delle produzioni che vedono questo mix di genere ed etnie partire in maniera ingente soprattutto dal teatro, dove sono state diverse le operazioni di casting che non hanno badato al colore della pelle o sesso del personaggio, avvalendosi di quella sospensione dell’incredulità che sul palco sembra assai più pronunciata, rispetto alle dinamiche di verosimiglianza (anche nella loro assoluta finzione) dei prodotti su piccolo e grande schermo. È infatti tra gli spettacoli dal vivo che il fenomeno del color-blind casting comincia a farsi spazio, e se poco ci dice il dibattito sulla Ophelia di Ruth Negga nell’Hamlet del 2018, maggiore famigliarità avrà un prodotto come l’ormai classico mondiale Hamilton di Lin-Manuel Miranda. Il musical che ha letteralmente ammaliato Broadway e il resto dell’immaginario teatrale globale viene pensato, ideato, trasposto e recitato dal 2015 da un autore di origini portoricane e composto dal resto di un cast di giovani interpreti di qualsiasi etnia: latina, afroamericana e asiatica.
Ciò che Miranda trasporta nel perimetro circoscritto di un palcoscenico fa clamore sia per la splendida operazione tra rap, hip hop e tradizione rivisitata che dà le caratteristiche alla sua opera la quale diventa pietra di paragone per i lavori del domani, sia rende il livello del discorso attorno al color-blind casting esponenziale poiché innesca al proprio interno dei cortocircuiti che solamente chi ha ben presente la storia può, in qualche maniera, condannare - per quanto anche chi non ne sia un gran conoscitore non dovrebbe comunque avere problemi a sospettarne. La storia di Hamilton è quella infatti dell’omonimo padre fondatore Alexander Hamilton che difficilmente, nella vita reale, avrebbe potuto avere un colore della pelle anche solo leggermente meno consono alle proprietà caucasiche dei potenti del tempo. Inoltre, colui che viene esaltato come eroe di una nazione, nonché interpretato da uno stesso attore di origini straniere, avrebbe a sua volta avuta all’epoca un proprio schiavo personale, seguendo le possibilità che la segregazione razziale concedeva ai bianchi altolocati.
Quello che, però, non si è riusciti ad analizzare con Hamilton, o meglio, che è stato fonte costante di dibattito, ma al contempo analisi rimasta periferica rispetto al successo raggiunto, è dovuto all’estrema bellezza di un modello di teatro che ha trovato una forza tale da superare anche quello che, agli occhi di tutti, dovrebbe essere principalmente una problematicizzazione dell’evento presentato. Le musiche, il libretto, le interpretazioni del cast di Hamilton hanno offuscato il gap della razza, poiché era la magia dello spettacolo a diventare predominante, lasciando ai simposi le loro discussioni, ma vedendo segnato prima di tutto il raggiungimento di una meta nella piramide dei capolavori contemporanei pienamente conquistata. Inoltre, volendo muoverci al di fuori dell’incantesimo dell’arte, è possibile affermare che Hamilton, nonostante la fortuna mondiale acquistata, è rimasto comunque circoscritto a un pubblico sostanzialmente anglofono e arrivato alla conoscenza al di fuori dei confini nazionali solamente anni dopo, venendo citato continuamente in film e serie televisive e ritornando sulla cresta dell’onda all’estero con la distribuzione globale adoperata dalla piattaforma di Disney + nel 2020, su cui il musical è stato rilasciato (saltando, a causa della pandemia di covid-19, quello che sarebbe dovuto essere un primo passaggio nelle sale cinematografiche).
È così che torniamo, quindi, a Bridgerton e ai passi che hanno portato lo spettatore a trovare sempre più manovre di color-blind casting rispetto a quanto, inizialmente, gli era effettivamente chiaro. Bridgerton e Netflix hanno avuto dalla loro la potenza di una comunicazione mondiale che, unita alla mastodontica portata televisiva di ShondaLand, non poteva che stuzzicare l’interesse di molti e rendere virale la serie ideata dallo showrunner Chris Van Dusen. Pubblico che, in tempi assai ravvicinati, ha avuto a che fare con le polemiche generate attorno ad altre due scelte di casting precedenti che hanno sollevato il polverone del “politicamente corretto”, riferendosi agli scontri ideologici e al malcontento nella volontà di Channel 5 di produrre una mini-serie su Anna Bolena con protagonista l’attrice di origini giamaicane Jodie Turner-Smith e, ancor più, la decisione di una casa di produzione come la Disney di programmare l’arrivo di un live-action sulla protagonista de La Sirenetta interpretata dall’attrice e cantante di colore Halle Bailey.
Quello che, dunque, è scoppiato con Bridgerton è stato soltanto un procedimento che è andato sempre più radicandosi e di cui ricordiamo una prima significativa esplosione con quegli Oscar “so white” che avevano fatto infervorare Spike Lee nel 2016. E che, dopo aver dato l’illusione di conformità multietnica, sembravano essere tornati alla ribalta nella serata degli Oscar del 2020, tanto che l’Academy avrebbe preso provvedimenti per stabilire nuove regole di inclusività produttiva in vigore dal 2024, così da permettere soltanto a determinate pellicole di poter vincere la statuetta al miglior film - polemica riaccesasi, tra l’altro, in un anno alquanto particolare, quello della vincita della statuetta più ambita da parte di un film coreano quale Parasite. La portata di Netflix, che nella vastità delle sue proposte dimostra di poter lasciare spazio a quante più opportunità di casting possibili, dimostra quindi l’influenza di un’azienda che ha riportato la riflessione in voga grazie alla visibilità del proprio portale mediale, forse momento di svolta per addentrarsi al meglio nelle dinamiche di una pratica che riserva un vantaggio creativo ancora poco esplorato.
Quello per cui viene lodata la scelta di un casting che oltrepassa le barriere della razza e del sesso è un potere immaginativo che abbiamo visto espresso al massimo nel lungometraggio La vita straordinaria di David Copperfield diretto da Armando Iannucci e presentato nell’edizione del 2019 del Toronto International Film Festival. Gli abiti ottocenteschi del protagonista vengono indossati con trasognata affezione da Dev Patel, di origine indiane, mentre il resto del cast mescola alla fantasia letteraria riportata in forma visiva una tessitura inter-razziale che vede madri afroamericane avere figli dalla pelle bianca e uomini d’affari asiatici poter interagire e rapportarsi ai buoni costumi dell'alta società inglese. Nel film di Iannucci il color-blind casting ha il sentore della surrealtà voluta, dell’interazione che fa parte della fantasia più accentuata, che vuole trarre di più dalle pagine di un classico come quello scritto da Charles Dickens, sfruttando la fotografia e le scenografie di una pellicola come fuoriuscita da un libro di illustrazioni, con una creatività da parte dell’autore che le concede di elevarsi.
Ciò che avviene ne La vita straordinaria di David Copperfield è perciò un utilizzo consono e riscontrabile in quello che è stato architettato anche per la serie Bridgerton: il color-blind casting non viene utilizzato con fini realistici, non si cerca l’autenticità dell’opera, ma la possibilità di spingersi oltre il semplice tasto della riproduzione, superando le barriere poste dalla verità e atterrando nelle opportunità della realizzazione. È ovvio, perciò, che il color-blind casting trovi la sua maggiore peculiarità nelle sorti immaginifiche di un prodotto, e che è necessario che vengano scremate attentamente le occasioni in cui è il caso di applicarlo.
Perché, a biasimare la messa in atto del color-blind casting, non è soltanto lo spettatore contrariato, (inutilmente) scandalizzato e spiazzato dall’opzione di un attore o un’attrice non conforme agli standard predefiniti del personaggio. Il pericolo sollevato da molti all’interno dei discorsi sull’attualizzazione di un procedimento come la scelta di attori non storicamente adatti a interpretare quei ruoli rivela il rischio di un oscurantismo storico che sopperirebbe a quell’oppressione razziale o patriarcale che, invece, è fondamentale mostrare, sia per una conformità alle dinamiche reali, sia ancor di più per l’importanza morale e sociale di poter imparare dagli errori del passato.
L’abolizione da parte di una pratica che vorrebbe coinvolgere le diversità, la quale ne elimina quindi quegli ostacoli che hanno portato proprio alla possibilità di compimento del color-blind casting, può incappare in un pericolo di cancellazione di una memoria dolorosa che, però potrebbe fungere da analisi antropologica e comunitaria lì dove venisse esposta con fini storici e reali. Certo non contribuendo alla produttività moderna che dà spazio a tutti gli attori di oggi (tra etnia e gender), ma che, se non avvenisse, sembrerebbe eliminare quasi quei motivi e quelle lotte che li hanno condotti fin proprio a poter rivestire ogni tipo di parte.
In fondo, poi, è impossibile non considerare l’etnia quando ci si riferisce alla scelta di ruoli fondamentali come quelli di personalità storiche che hanno comportato il reale avanzamento dei tempi e che, ad esempio, non potrebbero venire scambiati nel momento della scelta del casting, il quale dovrebbe rispettosamente basarsi proprio sul colore della pelle dei suoi interpreti. Avrebbe tutt’altro valore, infatti, vedere il One Night in Miami della debuttante alla regia Regina King interpretato da attori caucasici, che in quel caso dovrebbero ricoprire le parti di icone della black culture (e non solo) quali Malcolm X, Sam Cooke, Cassius Clay e Jim Brown. O, per guardare più indietro, scegliere un attore bianco al posto di Morgan Freeman per il Nelson Mandela dell’Invictus di Clint Eastwood, il quale sarebbe stato impossibilitato dal rispecchiare la realtà di quei fatti avvenuti nel 1995 e riportati nel film - oltre che a falsare completamente l’esistenza del leader e oppositore dell’apartheid.
Questo sembrerebbe in contraddizione con la volontà, già esplicata, di volere una regina di origini giamaicane sul trono di Inghilterra nella produzione inglese su Anna Bolena ed è proprio qui che il color-blind casting dovrebbe porre bene l’attenzione e esplicare i propri intenti quando si lavora su di un’operazione audiovisiva e culturale. Sicuramente ciò che avverrà con la suddetta miniserie non cercherà di avanzare alcuna pretesa su una veridicità o meno degli eventi riportati nel progetto, come le relazioni e gli intrecci rivisti e rivisitati nelle stagioni della serie ispirata alla famiglia dei Borgia. È quindi un rapporto di comprensione reciproca ciò che deve avvenire da entrambe le parti. Quella delle produzioni nel dover accettare l’avanzare di un’inclusività in alcuni dei suoi prodotti e sapere altresì quando si vuole invece rendere fedeltà alla storia. E quella del pubblico, che dovrebbe cominciare a ragionare al di fuori degli schemi fintamente prestabiliti che, troppo spesso, ci sono stati imposti, riscoprendo la meraviglia dell’immaginazione e l’occasione di poter vedere arricchita la molteplicità dei prodotti audiovisivi.
Un’analisi, quella sul color-blind casting, che proseguirà e svolgerà nuove funzioni, non sempre ponendosi come prima scelta per una produzione (dove anche Netflix, dopo Bridgerton, sembra aver peccato con una serie come Fate - The Winx Saga, accusata di whitewashing, ma avvalorandosi di un discorso sul body positive in sostituzione ad alcuni personaggi) e come, ad esempio, la scelta sempre più predominante del cambio di sesso in prodotti soprattutto commerciali, sia portati sul piccolo schermo o in sala. Come infatti è accaduto con il Ghostbusters al femminile del 2016 che, per tutta risposta, ha ricevuto ancora prima di uscire il più alto livello di dislike su YouTube mai capitato a un trailer, e che continuerà con l’introduzione del primo agente 007 donna in No Time To Die grazie all’attrice di colore Lashana Lynch - mentre ancora a gran voce si invoca un nuovo protagonista maschile per la saga. Ciò che bisogna dunque comprendere è la funzione di una formula che andrà modificando l’orizzonte della nostra conoscenza audiovisiva, a cui lo spettatore deve essere preparato, accogliendone le premesse e indagando coscienziosamente le sue contraddizioni, non lasciandosi avvolgere da avventatezza e animo sconsiderato.