Appunti per una cartografia del paesaggio italiano nel cinema americano contemporaneo, da "Luca" a "Chiamami col tuo nome".
Luca, ultimo film d’animazione della Pixar ambientato in un immaginario paese delle coste liguri, è uscito lo scorso 16 giugno, ma già da mesi aveva catturato l’interesse nazionale per un’evidente appartenenza geografia e culturale. Il film, girato dall’italiano Enrico Casarosa e distribuito direttamente in streaming su Disney+, è la storia di formazione di una creatura marina che scopre la terraferma nel paesino immaginario di Portorosso, luogo dove si può esibire lo spettacolo della vita che diventa adulta, del bambino che diventa uomo (con inevitabile riferimento a Pinocchio), del diverso che si interfaccia col mondo, tra amici, delusioni e speranze.
Partendo dalla convinzione che con il cinema si può fare geografia e che le location nei film non sono solamente delle unità spaziali che fanno da sfondo a un’azione drammatica, alla luce di altri esempi recenti (come le coproduzioni americane di Guadagnino o i film della Marvel), l’obiettivo di questo articolo è quello di provare a capire quale tipo di Italia trapeli dal cinema contemporaneo americano, quale “filtro” viene applicato nella rappresentazione culturale, paesaggistica e quale possa essere la chiave interpretativa più efficace.
Proprio sotto questo aspetto Luca si pone come un’importante conferma che ribadisce la tendenza a una rappresentazione ben posizionata su un asse prettamente turistico. Il film è costruito attorno ai confini e ai perimetri tra mondi, la chiave narrativa è lo sconfinamento che, come in tanti altri titoli della Pixar, comporta cambiamenti nelle forme fisiche dei personaggi oltre che, ovviamente, nelle parabole narrative individuali dei protagonisti.
Viene scontato pensare a un parallelo con Alla ricerca di Nemo dove la contrapposizione mare-terra coincideva ugualmente con il rapporto infanzia-vita adulta e con la crescita del binomio genitore-figlio; ma c’è da riconoscere che, rispetto a gran parte della produzione Pixar, l’altrove nel quale viene scaraventato il protagonista non è indesiderato, non è la morte di Soul o la cattura per l’appunto di Alla ricerca di Nemo. Rispetto al “mondo ordinario” degli abissi marini, in Luca l’Italia è il vero “mondo extra-ordinario”, un altrove ambito dove l’eroe può compiere il suo viaggio che, con la progressione della scoperta, suscita in lui un desiderio sempre più profondo.
La scoperta dell’Italia, nei paesaggi e nei suoi usi e costumi, coincide con la scoperta del mondo in senso lato. Luca è convinto di aver scoperto il mondo, anche se ha scoperto solo la costa ligure. A differenza di altri titoli Pixar ambientati in location non americane, l’Italia è un vero e proprio altrove da scoprire. Se in Coco il Messico è la casa del protagonista, ovvero un capitale culturale acquisito che si contrappone a un altro mondo che è quello dell’aldilà, e in Ratatouille la Francia è la patria del topolino parigino (al limite del patriottico) Remy e l’altrove a cui ambisce è il mondo dei piani alti della cucina, nel film di Enrico Casarosa, invece, la creatura marina protagonista è totalmente estranea alla cultura italiana e vuole esplorarla insieme al mondo terreno in generale.
Nel cinema americano, la scoperta di un nuovo mondo e dell’Italia coincidono sempre in un’ottica ludica ed entusiasta. Si pensi per esempio a un’altra produzione importante per l’immaginario italiano nel cinema americano di oggi, ma anche per lo stesso cinema italiano, ovvero la trilogia del desiderio di Luca Guadagnino, composta da Io sono l’amore, A Bigger Splash e Chiamami col tuo nome. Tre film diretti da un regista italiano con cast internazionale, coproduzioni internazionali progressivamente sempre più americanizzate (la netta differenza tra i successi dell’ultimo titolo ai premi americani rispetto a quelli italiani è un esempio). Anche qui l’Italia è un altrove con cui lo spettatore si trova ad interagire attraverso la mediazione di un “protagonista-straniero”: nuova casa per una donna trasferita a Milano dopo un matrimonio di interessi (Io sono l’amore), luogo di villeggiatura per ricchi musicisti (A Bigger Splash) o intellettuali franco-americani (Chiamami col tuo nome).
Guadagnino firma la sua cosiddetta “trilogia del desiderio”, un’opera fatta di tensioni corporee e sessuali, ambientate in contesti che ne reiterano i desideri di possesso. Un’opera che, perché no, in questa sede potremmo addirittura rinominare e reinterpretare come “trilogia del desiderio del paesaggio italiano”. Con la città di Milano di Io sono l’amore, il mare e l’isola di Pantelleria di A Bigger Splash, la campagna del cremonese, il lago di Garda e le montagne bergamasche di Chiamami col tuo nome, insieme alla pianura padana e il delta del Po di We Are Who We Are (miniserie televisiva uscita nel 2020 e naturale prosecuzione di questi tre film), Guadagnino firma una totale ed esaustiva cartografia del paesaggio italiano dove a farla da padrone è anche l’esplorazione e l’ambizione di scoperta del territorio straniero in un’ottica prettamente turistica.
Alla luce di questi primi due esempi possiamo delineare tre punti ricorrenti:
1) L’Italia nel cinema americano si impone sempre come un altrove straniero astratto e semplificato.
2) Si configura come luogo da scoprire tramite un protagonista straniero in terra straniera che si interfaccia ad essa ludicamente e desiderosamente.
3) L’ambientazione è spesso contestualizzata storicamente in un periodo non presente.
L’immaginario turistico di per sé è occidentalocentrico, storicamente e geopoliticamente determinato. Basti guardare uno dei cartogrammi proposti dal sito www.worldmapper.org per notare quanto l’Europa occidentale (tra cui anche l’Italia) sia da sempre protagonista di tutto il turismo internazionale. Allora, per tornare ai primi due punti elencati, la costruzione dell’immagine italiana nel cinema americano rispecchia quasi alla perfezione quella che è la costruzione dell’immagine turistica di per sé.
«Lo spazio turistico è innanzitutto un’immagine» diceva il geografo Jean-Marie Miossec, è una pratica prima di tutto estetica che si basa su precise costruzioni visive. Questo tipo di immaginario, come dicono Marco Aime e Davide Papotti in L’altro e l’altrove. Antropologia, geografia e turismo (Einaudi, 2012), «si configura come il risultato di una serie di processi di mediazione e di selezione della complessità territoriale» e si affida a dei cosiddetti “paesaggi tipici” che propongono sintesi astratte di elementi caratteristici rilevando quasi esclusivamente quelli più frequentemente ripetuti. «Un accumulo progressivo di citazioni di un medesimo messaggio» attraverso un vocabolario iconografico collettivamente riconoscibile fatto di landmark (punti di riferimento paesaggistici) come piazze e monumenti o elementi naturalistici (si è visto in precedenza l’elenco delle location dei film di Guadagnino), con lo scopo, pur raccontando il “locale”, di riferirsi a una dimensione prima nazionale e poi globale. Paesaggi astratti come quelli acquerellati ed elementari di Luca o quelli generalizzati di Chiamami col tuo nome («Somewhere in northen Italy” dice la didascalia iniziale del film, introducendolo in un contesto geolocalizzato per metà), ma anche oggetti e pratiche sinedottiche come i giri in bicicletta (elemento fisso dell’immaginario italiano in America dai tempi del film Ladri di biciclette di De Sica, si veda in questo caso l’uso delle biciclette nelle locandine americane nei film italiani), o come l’alimentazione (la scoperta della pasta in Luca). Pratiche che tornano nella narrazione ludico-turistica dell’Italia e ne alimentano il fascino dell’altrove, la dicotomia noi/loro e il mito della scoperta, tutti elementi chiave alla base della costruzione di un’immagine turistica.
Il cosiddetto tourist gaze però non si manifesta solo tramite una distanza geografia o culturale. Anche il passato, come anticipato al punto tre, è un perfetto altrove dove mettere in pratica un desiderio di scoperta e di astrazione dal proprio “qui” presente. Tutto il turismo legato al patrimonio artistico/culturale, l’Italia in primis, si basa proprio su questo concetto. Altrettanto allora può funzionare per il cinema. Originariamente l’Italia, nel cinema americano, arriva con successo grazie alla produzione neorealista e all’immaginario generale del dopoguerra, che ne influenza la rappresentazione facendola da padrone per anni (si pensi ai successi italiani agli Oscar ancora negli anni '90 come Il postino, Mediterraneo, La vita è bella, Nuovo Cinema Paradiso). È un’epoca chiave per l’interpretazione americana dell’Italia, politicamente rilevante e storicamente determinata, che viene riproposta in Luca in chiave malinconica tra architetture, costumi e riferimenti cinematografici ai film del Fellini anni '50 (La strada e I vitelloni) e fotografie del Mastroianni di Divorzio all’italiana.
Ma questa chiave di lettura negli ultimi anni si sta facendo sempre più debole e alternata a un altro periodo, come notano Damiano Garofalo e Emiliano Morreale in un’analisi dell’accoglienza critica americana del cinema italiano contemporaneo, pubblicata in Cinema made in Italy. La circolazione internazionale dell’audiovisivo italiano (Carocci Editore, 2020, pp. 77-94)), «più che per altri paesi, la nostra produzione cinematografica viene vista attraverso gli occhiali di una certa idea del suo passato recente (...) Il cinema degli anni Sessanta e Settanta è il convitato di pietra cui vengono messi a confronto i lavori recenti». Così come Chiamami col tuo nome , ambientato nei primi anni ottanta e spesso paragonato al Bertolucci di quegli anni, o come l’ultimo film di Ridley Scott ambientato a Roma, Tutti i soldi del mondo, che esplora un fatto di cronaca avvenuto nell’Italia degli anni settanta, ovvero il sequestro del nipote di Jean Paul Getty avvenuto per l’appunto a Roma nel 1973, si stanno sviluppando nuovi riferimenti ri-posizionati storicamente e artisticamente.
Ulteriore e ultimo punto chiave è quello delle cosiddette «immagini nuove» dell’iconografia turistica che Marco Aime e Davide Papotti definiscono come legate alla recente offerta di infrastrutture, eventi di richiamo e nuovi monumenti di attrazione, in poche parole il turismo di massa contemporaneo in senso stretto.
Spesso nel cinema americano degli ultimi anni l’Italia è stata proposta come un luogo di passaggio, come tappa di un viaggio più grande, breve capitolo di un più grande film-atlante turistico (catalogo per le vacanze dello spettatore medio americano). Per esempio, Venezia è la prima tappa della gita di Peter Parker in Spider-Man Far From Home, Porto Corsa (una specie di versione automobilistica di Porto Cervo?) è la località ospitante la seconda gara del torneo a cui Saetta McQueen partecipa in Cars 2, Firenze è la location del primo inseguimento dell’ultimo film di Michael Bay 6 Underground. Mercati in piazze storiche, giri in gondola, pomeriggi sulla spiaggia, gare automobilistiche, per un cinema che non sarebbe sbagliato definire cosmopolita, la cui rappresentazione geopolitica, chi più chi meno, ha un’effettiva rilevanza.
Nel caso-Italia le location rispondono a un interesse economico nazionale pianificato in gran parte dalle Film Commission regionali, ovvero organismi pubblici istituiti con lo scopo di attrarre produzioni audiovisive non autoctone nel proprio territorio e, indirettamente, anche alimentarne una narrazione paesaggistica che possa stimolare la pratica del cosiddetto film-induced tourism, anche detto cineturismo, ovvero flussi turistici nati o alimentati dalla reiterazione di immaginari cinematografici.
Il discorso è molto più ampio e difficile da approfondire in questa sede, ma alla luce dei film appena analizzati possiamo anche azzardare una definizione che inverta alcune direzioni. Nella sua storia recente il cinema ha saputo influenzare enormi flussi turistici (l’aumento vertiginoso dei viaggi in Nuova Zelanda dopo il successo de Il Signore degli Anelli è sintomatico) e in qualche modo, quasi come se fosse un circolo vizioso, ne ha saccheggiato alcuni immaginari. Ma se, piuttosto che vedere questa tendenza come accessoria e secondaria, la si prendesse in considerazione come una delle attività primarie di concepire un film per garantirgli un efficace posizionamento sul mercato, potremmo concludere dicendo che, alla luce dei film analizzati, invece di film-induced tourism, si potrebbe quasi iniziare a parlare di tourism-induced film: ovvero un cinema costruito su principali immaginari di turismo che emula, volontariamente o no, il suo lessico, facendo uso di pratiche costruttive che comportano sempre una relazione di potere geopolitico.
Leggere il cinema attraverso questa chiave interpretativa potrebbe offrire nuove punti di vista da esplorare. D’altronde l’immagine turistica è strettamente legata alla performance drammaturgica e, allo stesso tempo, incarna precisamente quello che Aime e Papotti indicano come una sorta di «terzo spazio» situato «tra il fatto e la finzione», quella zona grigia nella quale vive di fatto anche il cinema stesso.