La recente raccolta "L'abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell'orrore astratto" di Claudio Kulesko presenta una prospettiva interessante sulle modalità con cui è possibile raccontare i movimenti e il manifestarsi dell'orrore inumano. Una lettura.
Conservo ancora dei ricordi molto vividi di quando da ragazzino mi capitò, per sbaglio, di vedere La fattoria maledetta (The Curse). Erano gli anni di Notte horror, rassegna di film andata in onda per qualche estate su Italia 1. Al tempo, ovviamente, non avevo la minima idea che la pellicola di David Keith fosse tratta dal racconto Il colore venuto dallo spazio di Lovecraft. Lessi Lovecraft solo molto più tardi e mi sorpresi nel notare come il libero riadattamento di Keith mi fosse rimasto così impresso da accompagnarmi visivamente durante la lettura, nonostante non lo avessi più rivisto. Pur non essendo un horror particolarmente memorabile, La fattoria maledetta mi crea ancora oggi uno strano senso di disagio. Il film racconta del vortice di pazzia e violenza che colpisce una famiglia di contadini del Tennessee dopo lo schianto di un meteorite nei pressi della loro abitazione. Venendo assorbito dal terreno, il liquido contenuto nel meteorite inizia ad intaccare indistintamente tanto il raccolto e gli animali della fattoria, quanto i membri della stessa famiglia. La sensazione di inquietudine che provo deriva probabilmente dalla vicinanza degli ambienti in cui si svolge la storia e la zona di campagna in cui sono cresciuto, i cui campi di grano e le case disabitate lasciavano ampio spazio all’immaginazione. Una scena nello specifico, tuttavia, mi aveva particolarmente disturbato: durante una serata estiva la famiglia si trova riunita in soggiorno davanti alla televisione. Frances, moglie del contadino Nathan Crane, mostrava evidenti segni di disturbo derivanti dall’essere entrata in contatto con il liquido nocivo. Intenta a rattoppare un calzino nella sua poltrona, Frances inizia a fare discorsi insensati, a perdere bava dalla bocca e, soprattutto, a cucire con l’ago la sua stessa mano. Questo crescendo di inquietudine è tipico di qualsiasi film o racconto horror che voglia esaltare l’impatto negativo legato all’apparire di un elemento, o un agente alieno, attraverso il disgregarsi di qualsiasi principio di quotidianità. Come nebbia che poco a poco si espande avvolgendo ogni edificio che incontra, il terrore proveniente da una fonte ignota sembra seguire un processo inarrestabile. È questa caratteristica che trovo maggiormente interessante nei diversi racconti legati all’horror e al fantastico, ossia le modalità con cui viene descritta la diffusione del terrore. La fenomenologia dell’orrore che è possibile derivare dai racconti di Lovecraft, Ligotti o Blackwood dà forma a una galleria di scene ibride nelle quali i principi che sostengono l’ordinarietà della realtà convivono con paradossi e incidenti che ne intaccano ogni certezza. Il modo in cui questa tensione viene dilatata o ristretta rispecchia lo stile degli universi estetici creati dagli scrittori.
Recentemente pubblicato per Nero, L'abisso personale di Abn Al-Farabi e altri racconti dell'orrore astratto di Claudio Kulesko raccoglie sei differenti storie accumunate tuttavia dal presentare delle modalità simili di espansione dell’ignoto. Pur assumendo forme e dimensioni eterogenee, l’orrore che attraversa i vari racconti mostra di possedere una costante capacità di espandersi e inglobare ogni residuo di ordinarietà. Come viene scritto nel racconto che dà il titolo al libro, il cui nome del protagonista è un chiaro rimando ad Abdul Alhazred, autore del famigerato Necronomicon, «il vortice sussultò, come scosso da un fremito […]. A ogni contrazione il cortile si faceva più scuro e funesto, finché dalle statue, dalla vegetazione, dai mosaici, da ogni singolo filo d’erba e persino dal cielo sopra le loro teste non fu bandita ogni goccia di colore. Come d’incanto, il rifugio nel quale, fino al giorno prima, Al-Farabi aveva trovato riparo dal caos cittadino fu ridotto a una mesta scala di neri e di grigi». (20)
A questa caratteristica se ne aggiunge una seconda, il senso di inquietudine che collega le differenti storie proviene sempre da una fonte astratta. Qui astratto non significa irreale, privo di concretezza. Diversamente indica che qualcosa è fuori posto. È la constatazione che vi è movimento, capacità di azione o persino intenzione dove non dovrebbe né deve esserci. Non deve esserci affinché la realtà continui a rispecchiare l’immagine razionale che le abbiamo dato. Ed è attraverso questa crepa, questa lacerazione dell’abituale, che si fa strada l’ignoto e l’abominevole. Con le parole dello stesso Kulesko: «L’intuizione secondo la quale cose ed entità immateriali o non individuate siano in grado di agire su di noi e sul mondo è il concetto chiave dell’orrore astratto, nonché la sua principale categoria narratologica.»
Addentrandosi nelle storie si può notare che l’orrore descritto sembra muoversi verso due direzioni differenti. Da una parte, un vettore che si potrebbe definire, arbitrariamente, orizzontale: il terrore, l’indefinibile, non è ristretto ai soli esseri umani, ma si estende con la sua presenza cancerogena a tutta la biodiversità terrestre. Un orrore che, per riprendere le suggestioni di un recente articolo di Marco Malvestio, si potrebbe definire antispecista. Parassiti, lupi, cervi, falene, merli e topi costituiscono solo alcuni degli animali che compongono il variegato bestiario che si incontra mentre si attraversano i sei racconti. Il muggito di un bue condannato a morte si mescola con il pianto di un bambino addolorato e i lamenti di un gatto ammalato, mostrandosi figli di una comune miseria universale. In un passaggio veloce, è l’abisso stesso ad assumere forme animali: «Il vortice emetteva un sibilo e si gonfiava tutto, come un grosso rospaccio nero» (24). L’abisso diviene angoscia per un pericolo che incombe dal futuro, a cui gli stessi animali non sono preparati, come l’anatra e il topo portati in salvo dal professore Strenovitz, al centro del racconto che conclude il libro. O, al contrario, si presenta come terrore ancestrale, una trappola che scatta quando non si presta sufficiente attenzione ai segnali emessi dagli altri esseri viventi che ci circondano. L’incauto addentrarsi in luoghi inumani presidiati da silenti guardiani, come i salici del celebre racconto di Blackwood.
Dall’altra parte, l’orrore si dispiega secondo una traiettoria che, all’opposto, si può descrivere come verticale. «Non l’Essere», asserisce Al-Farabi, «ma il Vortice è il signore di tutte le cose». (32) Questo vortice possiede un proprio andamento annichilente, la capacità di consumare dall’interno ciò su cui si posa. Una metafora contenuta nel racconto La persistenza delle ombre mi sembra particolarmente adatta nel raffigurare questa dinamica: «Man mano che sprofondavo tra le tenebre di quella casa […] mi pareva quasi che l’oscurità mi stesse entrando nelle ossa, sostituendosi al midollo, rendendomi sempre più fragile e inconsistente. Come se quelle tenebre soffuse stessero estraendo e distillando dal mio corpo qualcosa di già presente in esso ma non ancora manifesto. Un po’ come quando si mette qualcosa di marcio a contatto con qualcosa che ancora non lo è» (44). Lo svelamento dell’orrore attraverso la necrosi rivela il paradosso della discesa nel vortice, il suo togliere rivelando, la sua capacità di consumare e produrre nello stesso momento. È ciò che spiega Jack, il cinico protagonista del film The House That Jack Built di Lars Von Trier, quando introduce l’immagine della muffa nobile (Botrytis Cinerea). Durante una conversazione con Virgilio, il personaggio con cui Jack dialoga e attraverso cui scopriamo la sua storia, Jack risponde alle accuse di nichilismo esplicitando l’importanza e la bellezza del decadimento portando l’esempio della Botrytis Cinerea nella viticoltura. Per alcuni vini - denominati vini botritizzati, dal nome scientifico della muffa – il fungo smette di svolgere una funzione negativa per divenire un fattore positivo, aumentando zuccheri e aromi. Il decadimento, il marciume, svolge un processo arricchente, apportando valore sottraendo, mostrandosi per Jack come un fine da raggiungere. Da un punto di vista strettamente teorico la dinamica di consumazione attraverso necrosi è stata esaminata da Negarestani in un breve saggio contenuto nel quarto volume di Collapse, dedicato al Concept Horror. In questo testo Negarestani assume come punto di partenza delle sue analisi una tortura di origini etrusche nella quale un condannato veniva legato ad un cadavere fino a quando i due corpi non sarebbero stati vittime dello stesso processo di degenerazione. Riprendendo la comparazione di Aristotele tra questa tortura e la modalità con cui l’anima è legata al corpo come elemento di per sé in fase di implicita decadenza, Negarestani propone un’idea di degrado creativo, derivante dallo stretto rapporto che lega il non-vivo, il putrescente, con la vita. Dei tre movimenti di necrosi che legano l’anima al corpo, è in particolare il secondo, definito come una katabasis nigrescente, che descrive con maggiore fedeltà la traiettoria verticale dell’abisso nei racconti di Kulesko: «L'anima è necrotizzata nella sua missione di governare l'universo e vitalizzare la materia in accordo con l'intelletto. In piena conformità con le sue intenzioni vitalistiche, l'anima assume una intimità con il niente: è invasa dal niente da dietro (a tergo). La seconda necrosi dell'anima […] è il suo legame indistruttibile e caparbio (wilful) con il niente allo scopo di restare, un vincolo completamente fondato sulla ragione. […] La legatura del vivente al morto è un punto di arrivo nella prospettiva di una riunione collettiva, ma è di sicuro di minor interesse quando ci rendiamo conto che il vivente, l'anima, è essa stessa in putrefazione. […] È solo questa seconda necrosi che indica chiaramente il punto culminante della tortura etrusca: mentre è legato al niente, l'anima in quanto restante continua a vivere, giacché la sua continuazione nel rimanere (meno) è garantita dal primato e dalla priorità del niente. Legato al niente il restante realizza l'atto del rimanere nella forma della diminuzione e del degrado, ed è attaccato al niente come ad un primato costituzionale.»
L’orrore descritto da Kulesko non consiste tuttavia solo di un vettore rivolto verso il fondo. Alla china nera a forma di vortice si aggiunge un ultimo versante, rappresentato da una vertiginosa ascensione verso l’indifferenza cosmica. Questa spinta è al centro del racconto intitolato Ascensione. Qui tutto, dai fantasmi che ne sono protagonisti agli edifici che costituiscono l’ambientazione del racconto, dà l’impressione di essere attraversato da una corrente fredda, astrale: «Guardò fuori dalla finestra. Era notte inoltrata, ormai. Le stelle risplendevano nel cielo a centinaia di migliaia. Placide. Indifferenti. Per l’ennesima volta, ne avvertì il richiamo. […] Era stanca del peccato, del dolore, della gratuità dell’esistenza e delle ferite che a questa venivano inflitte da creature come quella che si affannava in fondo alla stanza» (106-107). Che questi brulichii dell’abisso possano dare l’impressione di essere un riparo dai dolori personali, come suggerito nell’ultima parte della citazione, costituisce una magra consolazione. Prima però è necessario saper convivere con le granitiche conseguenze che questo distacco cosmico riserva alle azioni e alle decisioni umane, ossia accettare senza riserve di indossare i panni di una marionetta, figura centrale del pensiero e dei racconti di Ligotti. Anche in questo caso si tratta pur sempre di un ristoro temporaneo, una guerra di trincea nella quale ogni mezzo si mostra necessario pur di non lasciare avanzare il disgusto dell’abisso. È la condizione in cui si trovano alcuni tra i più celebri personaggi inventati da Beckett e da Kafka. È la situazione incarnata da Konrad, il protagonista del romanzo La fornace di Bernhard, che rimanda all’infinito la scrittura del suo saggio sull’udito, ma nel frattempo si rinchiude in una fornace abbandonata, un luogo circondato da oggetti che si arrugginiscono, deperiscono e divengono inutilizzabili, dando riscontro materiale alla gratuità della vita. Similmente, il già menzionato professore Strenovitz diviene testimone di un piano filosofico nel quale i concetti di essere, fondamento e assoluto smettono di funzionare, consumati da una teoria che li conserva solo in quanto vuoti gusci concettuali.
Nel mezzo di questo abisso, dei suoi movimenti e dei suoi vettori, i personaggi che animano i racconti, con il loro modo di narrarsi e spiegare la realtà, si pongono come fugaci tentativi di abitare le diverse ramificazioni dell’orrore. Quest’ultimo, tuttavia, non costituisce un nuovo caposaldo teorico, un terreno su cui erigere delle dimore speculative che siano in grado di porsi come alternative alle precedenti e obsolete argomentazioni. Come ha scritto Houellebecq a proposito del mondo creato da Lovecraft: «L’universo non è altro che una accidentale combinazione di particelle elementari. Una figura di transizione verso il caos, che finirà per inghiottirla. La razza umana scomparirà. Altre razze compariranno per poi scomparire a propria volta. I cieli saranno distese gelide e vacue, solcate dalla fioca luce di stelle mezze morte, che, a loro volta, scompariranno. Tutto scomparirà. E le azioni umane sono libere e prive di senso come i liberi movimenti delle particelle elementari. […] Certo, la vita non ha senso. Ma neppure la morte ne ha» (18).