La macchina difettosa - Singola | Storie di scenari e orizzonti

La macchina difettosa

In "Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro" Gavin Mueller rilegge l’esperienza luddista non come quella di un movimento tecnofobico, ma come una riflessione critica sulle direzioni del lavoro contemporaneo.

Intervista a Gavin Mueller
di Matteo Moca
Gavin Mueller

insegna "New Media and Digital Cultural" all'Università di Amsterdam. È un redattore di Jacobin e Viewpoint Magazine.

Matteo Moca

(1990) scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio e Il Riformista. Il suo ultimo libro è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba).

Normalmente il luddismo viene considerato come un movimento contrario alla tecnologia, una fase di rivolta contro i presunti miglioramenti produttivi introdotti dalla rivoluzione industriale con gli accoliti raccolti attorno al leggendario Ned Ludd che si lanciavano nella distruzione dei telai e dei macchinari tessili spinti dal desiderio, anche a costo di tornare a una fase precedente dell'organizzazione e sviluppo del lavoro, di rallentare il corso della storia. Il libro di Gavin Mueller Tecnoluddismo. Perché odi il tuo lavoro (pubblicato nella collana “Not” di Nero con la traduzione di Valerio Cianci) mira a rivalutare questa considerazione sul luddismo, con la convinzione che spesso le cose che si danno acriticamente per assodate si allontanano sempre di più dalla realtà, provando a rileggere le azioni del movimento non in una chiave tecnofobica, dettata cioè dal desiderio di fare a meno delle macchine in maniera assoluta, quanto invece sottolineando come il luddismo avesse preso coscienza dell'assenza di neutralità delle tecnologie e di come la presenza e l'utilizzo delle macchine portassero con sé il rischio di nuove forme di sfruttamento. Rileggendo in questa chiave le idee del movimento, e confrontando questa riflessione con il pensiero di Marx e dei suoi interpreti e con le più moderne teorie sul lavoro, Mueller riesce a mettere in contatto l'esperienza luddista con le storture della società contemporanea, parlando per esempio di “luddismo hi-tech” riferendosi ad alcune recenti forme di ribellioni di programmatori e hacker capaci di individuare e combattere la carica politica insita nella tecnologia, e, più in generale, dona un'aura più complessa e meno effimera alle idee luddiste.

Matteo Moca - Nel tuo libro sottolinei come identificare i luddisti con dei semplici tecnofobici costituisca un errore, o quantomeno pregiudichi una corretta comprensione del fenomeno. In Tecnoluddismo infatti ti spingi in una lettura più profonda delle loro azioni: come cambia dal punto di vista della tua interpretazione la valutazione del movimento?

Gavin Mueller - I luddisti non erano contrari a tutta la tecnologia. Poiché erano abili artigiani, nel loro lavoro utilizzavano gli strumenti che, all'epoca, rappresentavano la tecnologia più avanzata. Ciò a cui in realtà si opponevano erano particolari declinazioni delle tecnologie che venivano usate in modi che avrebbero minato i loro mezzi di sussistenza e distrutto pian piano le loro intere comunità. Questo è il senso attraverso il quale ho cercato di capire i luddisti, inserendomi pienamente nel loro contesto, cioè interpretandoli come uomini impegnati in una lotta che, in realtà, era abbastanza razionale.

 

MM -  Nell'idea di una importante rivalutazione dell'eredità luddista in ambito storiografico, tu scrivi che questa può avere un ruolo centrale nelle lotte contemporanee contro il capitalismo. Da questo punto di vista diventa determinante il confronto con le idee di Marx sul capitalismo. In quale modo si intrecciano questi percorsi filosofici ed ermeneutici?

GV - Ci sono diversi modi per avvicinarsi a ciò che solitamente definiamo come una “teoria marxista della tecnologia”. In primo luogo possiamo guardare a ciò che Marx stesso scrive. Nella mia interpretazione, Marx si rivela talvolta ambiguo. A volte sembra adottare un approccio deterministico, dove le contraddizioni del capitalismo portano all'innovazione delle forze produttive – maggiore concentrazione e produttività – che creano le basi necessarie per una società socialista. Quando il marxismo divenne influente all'interno del movimento operaio, fu questo approccio alla tecnologia che i teorici socialisti tendevano ad adottare: la tecnologia sviluppata sotto il capitalismo sarebbe stata poi messa a frutto in una società socialista. Tuttavia ci sono altri passaggi in cui Marx descrive la tecnologia come un'arma capitalistica che mina l'organizzazione proletaria. La tecnologia ha quindi una politica di classe insita nella sua stessa natura, ma non è così semplice utilizzarla per fini egualitari. Questa prospettiva è stata ripresa in vari momenti da pensatori marxisti eterodossi, spesso quelli strettamente e personalmente coinvolti nelle lotte sociali, come Raya Dunayevskaya della Johnson–Forest Tendency negli Stati Uniti o importanti figure dell'operaismo italiano come Raniero Panzieri. Se consideriamo il progetto generale di Marx come una guida per comprendere la lotta proletaria nel campo dei rapporti sociali capitalistici, allora quest'ultima visione è più utile, poiché possiamo vedere la tecnologia come luogo di lotta che potrebbe svilupparsi in sfide più ampie al capitalismo piuttosto che considerarla come una deviazione reazionaria.

MM - Mi sembra molto interessante la definizione che dai nell'ultimo capitolo del libro, quella quasi ossimorica di “luddismo hi-tech”. Mi pare che questa si riallacci all'interpretazione non necessariamente tecnofobica del luddismo; potresti spiegare questa definizione?

GV - Una volta che ci allontaniamo dall'idea dei luddisti come semplici tecnofobici, e riconosciamo che si tratta di lavoratori che intendono la tecnologia come un'arma usata contro la loro autonomia, le loro condizioni di lavoro e la loro auto-organizzazione, possiamo vedere che i tessitori dell'inizio del XIX secolo sono tutt'altro che un esempio unico e isolato. Se guardiamo più da vicino ai nostri tempi, al movimento del software libero e open-source, esso ha molte delle stesse caratteristiche della lotta luddista. Qui artigiani qualificati indipendenti – in questo caso programmatori e hacker – si sono mobilitati contro le imposizioni aziendali circa il copyright sui codici dei software. Creando le loro proprie licenze di proprietà intellettuale che preservano la possibilità di vedere e riutilizzare il codice, hanno effettivamente “spezzato” le forme di copyright del software e limitato la capacità di corporazioni come Microsoft di controllare il lavoro di programmazione, che tra l'altro ancora oggi rimane una delle forme di lavoro meglio pagate e con il più alto grado di autonomia. Questo non significa che il software open-source sia automaticamente anti-capitalista: come ci ha ricordato Stuart Hall non ci sono garanzie in politica, e Microsoft ora possiede Github, il più popolare repository open-source. Ma mostra invece che le reazioni alla tecnologia capitalista possono portare a movimenti sociali potenti e influenti e a forme di tecnologia ancora più egualitarie. Non si può facilmente definire un hacker un “tecnofobico”, poiché esplorare e sperimentare con la nuova tecnologia è ciò che definisce la stessa identità hacker, ma credo che possiamo definire molti hacker luddisti, nel senso che sono capaci di riconoscere che la tecnologia è politica, che può essere contraria ai nostri valori e che può, e in alcuni casi deve, essere contrastata.

 

MM - Un capitolo del tuo libro è dedicato all'automazione del lavoro. Il tuo ragionamento parte dalle innovazioni introdotte dalla Ford e dalla distanza semantica che si è creata nel tempo nell'utilizzo originario della parola “automazione”. Successivamente discuti in maniera critica come alcuni scrittori radicali di sinistra come Alex Williams, Nick Srnicek e Peter Frase abbiano accettato l'idea che la piena automazione sia uno degli snodi definitivi per superare lo sfruttamento capitalista. Cosa non ti convince dell'opinione dei sostenitori della piena automazione?

GV - Lo slogan della “piena automazione” è solo l'ultima versione di una promessa di lunga data dei progressisti tecnologicamente ottimisti. Ci è stato promesso, da generazioni, che la tecnologia avrebbe eliminato il lavoro, ma non è ancora successo. Perché? Secondo i sostenitori della piena automazione è perché le relazioni sociali capitaliste ci richiedono di lavorare mentre una società socialista potrebbe utilizzare la tecnologia avanzata in modo diverso. Nutro tre critiche rispetto a questa posizione. Innanzitutto se consideriamo la tecnologia capitalista come politica – per esempio come un modo per attaccare l'organizzazione proletaria esistente ristrutturando il processo di lavoro per isolare e disciplinare le persone – allora la tecnologia sta erodendo i mezzi per creare una sfida politica in grado di provare a superare il capitalismo e quindi stiamo facendo dei passi indietro. In secondo luogo l'automazione stessa non può essere intesa semplicemente come “sostituzione di posti di lavoro con la tecnologia” perché l'automazione riorganizza il lavoro.

Infatti (a seconda di altri fattori economici, come ha dimostrato per esempio Aaron Benanav), l'automazione può effettivamente aumentare il numero di posti di lavoro, in particolare quelli poco qualificati e quelli afferenti alla sfera del management. L'economista David Autor sostiene che dovremmo considerare l'automazione come una nuova polarizzazione della forza lavoro e non come una sua sostituzione. Infine la tecnologia non ha la funzione di svolgere tutte le forme di lavoro umano, si tratta di un livello che potrebbe non raggiungere mai. Il lavoro di cura, per esempio, è essenziale per le società umane e non è facile, e forse nemmeno desiderabile, che sia automatizzato. Persino la produzione di indumenti, una delle più antiche industrie capitaliste, e una di quelle in cui i luddisti hanno lottato, resiste ancora oggi alla completa automazione.

MM - Una delle idee che sottendono il tuo ragionamento è l'assenza di neutralità nelle tecnologie. Si tratta di un tema fondamentale considerata la presenza sempre più pervasiva della tecnologia nella vita quotidiana. Penso alle riflessioni di James Susskind, che in Future Politics parla di come gli algoritmi usati da banche o assicurazioni replichino storture umane, oppure al libro di Ruha Benjamin Race After Technology dove l'autrice sottolinea come il razzismo sia profondamente radicato in molte tecnologie tarate per maschi bianchi. Insomma il rischio che le tecnologie non siano oggettive o neutre è realtà. Come questo connota il mondo del lavoro?

GV - A mio avviso, il modo in cui i rapporti sociali capitalistici sono stati incorporati nella tecnologia è stato elaborato poco più di 100 anni fa da Frederick W. Taylor e dai suoi seguaci nel cosiddetto “management scientifico” che rivela i lati politici del lavoro. Questo era un progetto per razionalizzare la produzione, la cui organizzazione, a quel tempo, era in gran parte fatta dagli stessi lavoratori. Taylor vedeva questa sua nuova idea come un modo per ottimizzare il tempo dei lavoratori ed evitare di trarre fondo a tutti i loro sforzi. Per cambiare la situazione Taylor infatti ebbe una semplice intuizione: la conoscenza del processo di produzione dovrebbe essere separata dall'esecuzione del processo di produzione. In altre parole i lavoratori dovrebbero seguire i comandi piuttosto che prendere le proprie decisioni. Il lavoro dovrebbe essere suddiviso in compiti sempre più piccoli dove, di nuovo, il lavoratore non ha voce in capitolo su come vengono completati. Quando questo viene fatto, si può accelerare il ritmo di lavoro, rendere i lavoratori sostituibili e sradicare modi alternativi di realizzare il lavoro. L'approccio taylorista si trova ancora oggi ovunque, nonostante le affermazioni che affiorano ripetutamente su quanto il futuro richieda lavoratori flessibili e creativi.

 

MM - Una delle cose che mi ha maggiormente impressionato del tuo lavoro è la tua capacità di legare le rivolte contro i telai dei luddisti alle possibilità della resistenza al meccanismo degli algoritmi o al “capitalismo della sorveglianza”, per usare la definizione di Zuboff. Quali aspetti del luddismo possono essere decisivi in queste situazioni contemporanee?

GV - Una ragione per cui enfatizzo una politica della tecnologia è che penso che sia popolare e che la sinistra ci possa guadagnare se riesce a comprendere le sostanziali insoddisfazioni che la gente ha nei confronti della tecnologia contemporanea e delle aziende che ci sono dietro. Il sentimento della maggior parte delle persone oggi, per quanto riguarda la tecnologia, non è ottimista. La gente riconosce sempre più che le piattaforme digitali sono portatrici di una serie di danni, non aggiungono nulla rispetto alla qualità della vita delle persone e non rendono affatto le società più uguali o più democratiche. Gli algoritmi che avrebbero dovuto semplificare la vita, aiutandoci a trovare un partner romantico, o un film da vedere, o una notizia da leggere, non solo falliscono nel loro compito, ma distruggono tutte le alternative a queste attività che una volta erano la sostanza della vita fuori dal lavoro. I miei amici che usano Tinder e app simili dicono che rendono gli appuntamenti un lavoro. La politica radicale è nulla se non riesce a riconoscere i problemi che la gente affronta ogni giorno e a collegarli a un progetto più ampio di cambiamento progressivo. E qui si svelano anche i reazionari che tentano di cogliere opportunisticamente questo problema. Per esempio, anche se Facebook avvantaggia la politica di destra – le prime dieci notizie sono invariabilmente propaganda di estrema destra e l'azienda si consulta dietro le quinte con i politici di destra – negli Stati Uniti i politici repubblicani aumentano la loro visibilità lamentandosi della censura e dei pregiudizi liberali. Il problema di Facebook non è il bias liberale e nemmeno la “censura”, ma è, tra le altre questioni, che un'azienda altamente irresponsabile e mendace può raccogliere quantità astronomiche di dati e usarli per controllare il nostro ambiente informativo e venderli a chiunque sia disposto a pagare.

 

MM - Nelle conclusioni del tuo libro inviti la sinistra radicale a proporre una politica decelerazionista, a sostenere un rallentamento del cambiamento e “arginare la cupidigia del capitale”. Sottolinei anche come sia necessaria la definizione di una nuova politica che, anche sulla scorta dell'esperienza luddista, enfatizzi l'autonomia dei lavoratori. Quali sono le tue speranze rispetto alle possibilità di una presa di coscienza delle forme di luddismo nei più diversi ambiti?

GV - Accelerare il ritmo del cambiamento è, per me, un errore politico. Non è consigliabile per le ragioni che ho spiegato in precedenza e non affronterà i problemi urgenti che abbiamo oggi. La mia visione di una politica luddista, che è critica nei confronti della tecnologia come mezzo per contestare gli imperativi capitalisti di efficienza e produttività, mi ha fatto interessare al progetto politico economico della decrescita. La decrescita è fondamentalmente incompatibile con il capitalismo, che richiede la crescita a spese di tutti gli altri valori. Ma la crescita non beneficia tutti, e nemmeno la maggior parte delle persone, specialmente se guardiamo alle società supersviluppate del Nord globale dove la crescita economica è catturata dai più ricchi della classe capitalista. La decrescita apre invece alla possibilità che altri valori governino le nostre economie. Penso che la maggior parte delle persone sarebbe più felice in una società in cui si lavorasse di meno, si avessero relazioni più ricche con la propria comunità, si avesse il tempo per imparare abilità utili, una società in cui i bisogni umani come la cura e la salute fossero prioritari, anche se ciò significasse fare dei giri di shopping un po' meno eccitanti e meno frequenti. Io lo preferirei alla precaria corsa al massacro in cui la maggior parte di noi è costretta. E, cosa importante, la decrescita offre anche una via per ridurre rapidamente le emissioni di carbonio, una strada che non dipende da tecnologie speculative che potrebbero non arrivare mai effettivamente alla prova dei fatti. Come ci arriviamo? Non senza movimenti di massa per un cambiamento radicale. La lotta per l'autonomia dei lavoratori, per il controllo su ciò che ci interessa nella vita, è per me un nucleo della lotta per una società veramente democratica, dove abbiamo una reale voce in capitolo su come soddisfare i nostri bisogni.

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Globale - 2022
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Gavin Mueller

insegna "New Media and Digital Cultural" all'Università di Amsterdam. È un redattore di Jacobin e Viewpoint Magazine.

Matteo Moca

(1990) scrive, tra gli altri, per Il Tascabile, Il Foglio e Il Riformista. Il suo ultimo libro è Figure del surrealismo italiano. Savinio, Delfini, Landolfi (Carabba).

Pubblicato:
18-03-2022
Ultima modifica:
18-03-2022
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