La pubblicazione degli ultimi libri di Roberto Calasso è un'opportunità per riaggiornare il discorso sulle sue opere, strumenti per comprendere meglio la sua personale relazione con la vita e la letteratura.
In un passaggio di uno dei suoi ultimi libri, Bobi, dedicato alla sua amicizia con Roberto Bazlen, ai suoi insegnamenti e alla sua funzione centrale nella creazione della casa editrice Adelphi, Roberto Calasso, proprio attingendo a ciò che ha imparato dal critico e scrittore di origine triestina, riporta un ricordo che sottolinea essere molto importante e che si rivela tale non solo per inquadrare la personalità di Bazlen, ma anche per comprendere l'opera e il lavoro di Calasso: «Se qualcuno mi chiedesse quale fu, in quei primi mesi, l’effetto maggiore che provocò in me Bazlen – scrive Calasso –, dovrei dire: mi dissuase dallo scrivere».
Siamo negli anni che precedono la fondazione, a opera di Calasso, Bazlen e Luciano Foà, della casa editrice Adelphi e Calasso si apprestava a pubblicare un saggio, «quanto mai irto», dal titolo Th. W. Adorno, il surrealismo e il “mana”. Il consiglio di Bazlen non nasce solo da una sua idiosincrasia nei confronti di Adorno (ricorda Calasso che Bazlen disse di lui: «è uno di quelli che si profumano perché hanno paura di puzzare»), quanto dall'idea che il fatto stesso di scrivere costituisse un ostacolo da superare il più presto possibile, «anche se quasi inevitabile per chi è giovane».
È questo probabilmente, da quello che si può esperire leggendo Bobi, uno dei passaggi fondamentali che segnano il pensiero di Calasso che comprende, sulla scia di quanto suggeriva Bazlen e in controtendenza verso una grafomania che ancora oggi riscuote il suo importante tributo, che esisteva qualcosa di altro rispetto alla scrittura, qualcosa che, «attraverso certi libri si manifestava» perché «dai libri si partiva e ai libri si tornava». Era ciò che Bazlen sapeva praticare fino in fondo, parlando di libri ad amici ed editori, ed è ciò che Calasso, per tutti gli anni trascorsi all'interno della casa editrice, ha saputo praticare, parlando, scrivendo e pubblicando i libri degli altri, immaginando miracolose e irte relazioni che fanno di Adelphi un unicum nel panorama editoriale mondiale.
Bazlen muore nel 1965, quando Calasso è ancora molto giovane e ha poco più di vent'anni (era nato nel 1941 a Firenze) e Adelphi ha appena cominciato a pubblicare il progetto editoriale che ha rappresentato il motore della sua nascita, l'opera completa di Friedrich Nietzsche sotto la direzione di Giorgio Colli. Calasso lavora nella casa editrice sin dall'inizio, nel 1971 diventa direttore editoriale e dopo pochi anni, nel 1974, a dieci anni dalla morte di Bazlen, pubblica il suo primo libro, L'impuro folle, dopo aver curato Il racconto del pellegrino (1966) di Ignazio di Loyola, Ecce homo (1969) di Nietzsche e Detti e contraddetti (1972) di Karl Kraus.
Ecco allora che Calasso parte dal libro e torna al libro, disegna una costellazione di autori e temi a lui cari, che si rintracciano nelle prefazioni, postfazioni, saggi e risvolti di copertina che accompagnano alcuni di titoli di Adelphi fino a quell'anno, e poi scrive il suo primo libro, cominciando un'opera che fino alla morte dell'autore conta più di venti titoli (anche libri che raccolgono una parte di suoi rivolti di copertina, Cento lettere a uno sconosciuto, o trascrizioni di suoi interventi, come per esempio L'impronta dell'editore, La follia che viene dalle Ninfe o Come ordinare una biblioteca). Come intendere allora quella dissuasione allo scrivere di cui parla Calasso in riferimento a Bazlen?
Chiaramente si tratta di un momento ben preciso nella crescita di Calasso, afferente agli anni della formazione, e infatti il libro L'impuro folle arriva a più di dieci anni di distanza dall'incontro con Bazlen, ma analizzando con attenzione l'opera di Calasso si può intuire anche un altro aspetto, certamente meno immediato, ma forse ancor più decisivo per provare a capire il significato della sua opera, ovvero la connessione profonda che innerva la sua opera di scrittore e di editore, di chi scrive i libri e di chi li confeziona con cura. La produzione di Calasso può essere divisa in maniera sommaria in due parti: da un lato ci sono libri dalla struttura e costruzione varia, interventi, ma anche raccolte di articoli (I quarantanove gradini) oppure le straordinarie lezioni tenute a Oxford e confluite in La letteratura e gli dei. Dall'altro lato c'è invece la sua grande “opera” unica, divisa in varie parti tutte connesse tra loro seppure nessuna sia il proseguo della precedente: il primo tassello è La rovina di Kasch del 1983, incentrato sulla figura di Talleyrand, l'ultimo, l'undicesimo, è La tavoletta dei destini (2020), dedicato invece a Utnapishtim e al racconto del diluvio universale; nel mezzo ci sono poi i libri dedicati a Baudelaire, a Tiepolo, a Kafka e ai Veda indiani.
Nell'altro libro di Calasso uscito in libreria proprio il giorno della sua morte, così come Bobi, lo scrittore si dedica al racconto della sua infanzia a Firenze, un memoriale per i suoi figli che sono tanto lontani dalle memorie di Pavel Florenskij (Ai miei figli) che Calasso legge loro, quanto dagli anni della sua infanzia, gli anni Quaranta e Cinquanta, a Firenze. Calasso si accorge che esiste un orizzonte così diverso tra lui e i figli da aprire enormi vuoti interpretativi da riempire: alla domanda dei figli su cosa ricordasse degli anni della sua infanzia, Calasso rispondendo si accorge subito di quanto fossero remoti quei racconti alle orecchie dei ragazzi e sente quindi l'esigenza, e il piacere verrebbe da aggiungere, di raccontare e di spiegare. Questo è il contenuto di Memè Scianca, dove Calasso ripercorre gli anni trascorsi a Firenze della sua infanzia, ricostruisce il suo universo famigliare, la latitanza del padre ricercato a seguito dell'omicidio di Giovanni Gentile perché membro della Resistenza, il vivace ambiente culturale fiorentino degli anni Quaranta e Cinquanta ma, soprattutto, racconta se stesso.
Si tratta di frammenti e schegge di memoria che molto spesso finiscono per incartarsi sui libri, nonostante le fallacie inevitabili della memoria: «La memoria è fatta in prevalenza di buchi, come un territorio crivellato di crateri vulcanici ormai inattivi. Qualsiasi tentativo di ristabilire un itinerario simile al tracciato di una strada su una mappa è vano e tende a sfigurare gli elementi che via via incorpora». Questo scrive Calasso sui meccanismi del ricordo ma riesce ugualmente a ricostruire, anche con una certa nostalgia, i primi itinerari della sua lettura. In ordine cronologico, ma come ci dice all'inizio il susseguirsi degli eventi narrati del libro segue una certa libertà, Calasso racconta tra le prime cose il suo incontro folgorante con Proust, mediato da Enzo Turolla che durante le vacanze a Canazei nel 1964 gli parlò per primo dello scrittore francese. Calasso ricorda che da quel momento chiese «con insistenza» ai genitori la Recherche in regalo, dono che arriverà dalle mani del padre, e che dall'inizio della lettura si ritrovò nello stato di eccitazione descritto da Turolla: «Non volevo più distaccarmi dalla lettura e non cercavo altro. Se c’è un’opera in cui sono entrato senza incontrare il minimo ostacolo, fu la Recherche. Sul frontespizio di tutti e tre i volumi scrissi con fierezza – e ancora barbaramente a penna – il mio nome seguito dalla data: Natale 1954».
Ma ancor più decisiva appare, oltre alla lettura delle storie di Sto (che poi sarà infatti ripubblicato da Adelphi) e dell'Orlando Furioso illustrato da Doré, la lettura di Cime tempestose che spalanca a Calasso gli orizzonti possibili della letteratura e il trasporto, anche fisico, che una storia può veicolare. Calasso procede in un paragone molto interessante tra la letteratura e il gioco sottolineando come quest'ultimo induca a una «concentrazione estrema» che porta «ad annullare tutto ciò che ne è parte», sottolineando così la sua natura di «droga autoprodotta», preferibile a tutto il resto. Eppure, scrive Calasso, i libri cominciano a fare breccia nell'idea che non ci sia nulla di meglio del gioco e nasce il pensiero che il libro possa creare la stessa intensità che scaturisce dal gioco. All'interno di questa nuova idea sui libri e sulla letteratura, irrompe appunto la lettura di Cime tempestose nella casa dei nonni: «Quella notte non finiva mai. Volevo andare avanti a ogni costo, precipitare a capofitto nella storia, che era anche la prima storia d’amore ad avermi conquistato. […] Credo che fino allora non sapessi con esattezza che cos’è la passione – e dopo quella notte lo ho saputo. Era una di quelle rivelazioni che nessun gioco mi avrebbe concesso. Il libro della Brontë apriva la via verso una regione ignota e fascinosa, di cui nessuno parlava e si poteva scoprire soprattutto al cinema. Ma scoprirla in un libro era qualcosa di diverso. Andava più a fondo».
Questo momento nel racconto contenuto in Memé Scianca sembra rivelare una carica iniziatica rispetto alla letteratura e alle sua storie che segna in maniera indelebile lo sguardo di Calasso e che sembra anche suggerire le suggestioni legate al mondo dei libri che interverranno decisamente non solo nella sua opera di scrittore, ma anche nel suo lavoro di editore. Si apre infatti a questo punto una domanda decisiva rispetto ai libri di Calasso, quella relativa a cosa intendesse per “letteratura”, un'idea che si dispiega lungo tutta la sua opera e a cui quest'ultima implicitamente risponde.
E se c'è un libro che forse più di altri è in grado di rivelare cosa Calasso intendesse con questa parola, questo è La letteratura e gli dei. Nel suo formidabile studio sull'opera calassiana, La letteratura Assoluta (Feltrinelli), Elena Sbrojavacca definisce la raccolta di lezioni tenute come visiting professor all'Università di Oxford, come un «accesso laterale all'Opera» e dedica il primo capitolo del suo libro proprio a questo testo, dove Calasso dispiega la sua idea di letteratura e la mette in comunicazione con i volumi dell'Opera che aveva pubblicato sino a quel momento (La rovina di Kasch, Le nozze di Cadmo e Armonia e K.). Nella Premessa al volume Sbrojavacca ricostruisce anche l'accoglienza su “Tuttolibri”, inserto di “La stampa”, alla pubblicazione della raccolta di saggi e articoli I quarantanove gradini, riportando le critiche che chiudono l'articolo di Angelo Guglielmi dedicato al libro di Calasso, dove l'allora direttore di Rai 3 sottolinea come sia «deludente» a causa della mancata attenzione al presente e a indicazioni utili a fare «scelte per l'oggi», evidenziando quindi in Calasso una colpevole distanza rispetto alla realtà.
Da quell'articolo nasce una discussione sulle pagine dell'inserto che coinvolge, tra gli altri, Fruttero e Lucentini, Gianni Vattimo, Sebastiano Vassalli e Sergio Quinzio che sottolinea invece, scrive Sbrojavacca, come «giunti al tramonto della civiltà, l'unica strada di salvezza è l'esercizio di un'intelligenza critica aspra e tagliente». A questa discussione si unisce lo stesso Calasso con un suo articolo centrale per comprendere la sua idea di letteratura: dopo aver detto di essere lontano dall'idea che non ci sia più niente da dire, pensare o proporre (portando a testimone il fatto di passare la vita a pubblicare libri suoi e di altri), Calasso apprezza la definizione di Fruttero&Lucentini che lo hanno paragonato a un elettricista in grado di «districare il groviglio di fili multicolori» di un vecchio impianto elettrico: «saper collegare i fili di quel vecchio impianto elettrico che è la nostra mente mi sembra l’unica ambizione che si possa legittimamente attribuire alla letteratura, la quale, per il resto, come tutte le cose essenziali della vita, non ha funzione – e tanto meno quella di fornire “un conforto a fare scelte per l’oggi” (Guglielmi) –, ma si appaga del capire ciò che è, rivelando ciò che è in una forma».
Proprio circa le relazioni tra le opere di Calasso e il catalogo della casa editrice si può ricordare che un autore Adelphi, Vladimir Nabokov, in una delle sue lezioni sulla letteratura parla proprio di quest'ultima come del regno del superfluo e dell'inutile che però è essenziale per vivere: «Il sapere di cui ho cercato di farvi partecipi è lusso, puro e semplice. Ma, se avrete seguito le mie indicazioni, potrà aiutarvi a provare il senso di appagamento puro e assoluto che dà l’opera d’arte ispirata e ben costruita, e quel senso di appagamento, a sua volta, contribuirà a creare una sensazione di serenità, di benessere mentale più genuino». Nella sua lettera a “Tuttolibri” allora Calasso offre al lettore dei luoghi ermeneutici decisivi per comprendere e leggere la sua opera, mettendo in chiaro come la letteratura rappresenti il «tentativo di penetrare i segreti di quel territorio in larga parte ignoto che è la mente umana» riassume Sbrojavacca che nel suo libro dedica al rapporto tra letteratura e mente molto spazio con analisi precise e illuminanti.
Per fare questo Calasso, la cui opera sembra sempre spinta da una forza centrifuga, tiene bene a mente un nucleo originario solido, assecondando in questo ciò che scrive nel saggio su Nietzsche in Ecce homo dove accenna a «quel pensiero unico che è proprio soltanto dei grandi pensatori», una «dichiarazione d'amore e un riflesso della fascinazione di Calasso per le ossessioni, per le immagini infestanti che agitano la psiche di tanti artisti da lui amati», così scrive Sbrojavacca, una rete di corrispondenze che è intrigante e magnifico provare a rintracciare tra le sue opere.
Si veda per esempio il recente Allucinazioni americane, un libro dedicato a due film di Hitchcock, Vertigo e La finestra su cortile che dal cinema (che in Memé Scianca è considerato dal Calasso bambino come il luogo da cui scaturiscono regioni ignote e fascinose) si muove poi verso l'amato Kafka (a cui è dedicato K., ma anche l'appassionata curatela degli Aforismi di Zurau) e il suo romanzo Il disperso (America), «romanzo che permette di capire cos'è il cinema» perché se il cinema è «compresenza di allucinazione e iperrealtà, intesa come fisicità eccessiva», la stessa modalità di percepire «diversa e soverchiante» si ritrova in quelle pagine di Kafka. E lo stesso libro va ancora a interessarsi al rapporto tra il pensiero e la realtà, tra ciò che succede nella mente e ciò che succede fuori da essa attraverso la mediazione del «materiale metafisico per eccellenza», il cinema.
Solamente indicare le relazioni che innervano l'opera di Calasso, esercizio ermeneutico complesso ma appagante, è un compito che esula da questo articolo, ma è anche, probabilmente, ciò che il lavoro di una vita di Calasso in Adelphi e sui suoi libri lascia a qualsiasi lettore, un'eredità immateriale e sconfinata, una testimonianza sempre viva dei desideri che hanno portato alla nascita di Adelphi e che hanno segnato in maniera incontrovertibile l'opera di Calasso e la sua idea di letteratura. E così se gli ultimi due esili Memé Scianca e Bobi non sposteranno la considerazione generale sull'opera di Calasso, funzionano ugualmente come (meravigliosi) dispositivi di indagine, come ricchi elementi laterali in grado di aprire a ben più grandi considerazioni interpretative, soffermandosi sia sugli anni dello scrittore bambino e sul vivace mondo intellettuale fiorentino attorno a lui, sia sulla nascita di Adelphi e sul ruolo fondamentale di Bazlen nella formazione del futuro direttore della casa editrice. In Bobi tra l'altro Calasso riporta le prime idee di Bazlen rispetto alla nascita di una nuova casa editrice (a dispetto di libri frammentari e incompleti, Calasso scrive che «l'opera compiuta di Bazlen fu Adelphi») e dopo aver ricordato come, quando Adelphi non aveva ancora il suo nome, Bazlen gli disse «Faremo solo i libri che ci piacciono molto» («non occorreva di più», chiosa), racconta: «Per lui, essenziali erano quelli che chiamava libri unici – e potevano avere forma di romanzi o memorie o saggi o, in breve, di qualsiasi altro genere. Ma comunque dovevano nascere da un’esperienza diretta dell’autore, vissuta e trasformata in qualcosa che spiccasse, solitario e autosufficiente». Calasso aveva allora poco più di vent'anni, ma è sicuro che l'idea dei «libri unici» non lo abbandonò mai e così l'intera sua opera, così come il catalogo della casa editrice che per così tanti anni ha diretto e plasmato, è forse la rappresentazione plastica e sfuggente proprio di questo libro unico.