L'era del clash - Singola | Storie di scenari e orizzonti
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L'era del clash

Linguaggio volatile, democrazia al collasso.

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Alice De Gregoriis

(1994) è redattrice, editor e giornalista freelance. Scrive soprattutto di letteratura, società e cultura. Suoi articoli sono apparsi per DINAMOpress, Altri animali, La Balena Bianca e altre riviste.

«LLa nobile fiducia che gli uomini possano l’un l’altro, attraverso la lingua, convincersi è andata radicalmente persa. […] Mai il mondo ha dato per assodato con tanta sincerità e franchezza che non vale neanche la pena cercare una comprensione reciproca. Un pesante mutismo grava sul mondo», scriveva Hermon Broch nel 1934. I nazisti avevano da poco preso il potere. Il mutismo di cui parla non è la fine della storia, ma la semplice esplosione del linguaggio: oltre il linguaggio, restano i suoni animali, stati d’animo espressi in articolazioni vocaliche. Questa disintegrazione del messaggio è la stessa presa in esame da Christian Salmon in Fake. Come la politica mondiale ha divorato sé stessa, anno 2020. Cosa ha minato alle fondamenta il tentativo di cercare una «comprensione reciproca», cosa ha armato questo stato di guerriglia permanente del linguaggio? E soprattutto, è possibile uscirne?

In questi giorni ho affidato a una mia studentessa il compito di scrivere un testo argomentativo su social e fake news. Lei mi ha risposto che è vero, le fake news sono un problema reale: ormai è evidente che gli assalitori del Capitol Hill siano stati finanziati da Soros per screditare Trump, ma i mass media hanno portato avanti la loro missione di discredito, hanno diffuso fake news sull’ex presidente per indebolirlo politicamente. Leggendo il testo non ho potuto fare a meno di chiedermi: la posizione della studentessa è un misunderstanding sul concetto di fake news o una sfida aperta (e apprezzabile) alla mia opinione “mainstream”? Fatto sta che non so bene come risponderle.

Effettivamente, la crisi delle autorità istituzionalizzate – agenzie di stampa, governi, forze dell’ordine – la percepiamo entrambe, ma con una differenza: per lei questa crisi si traduce nella mala fede degli antichi mediatori, per me si traduce nella loro impotenza. Andando avanti nel tema leggo: «Noi crediamo di essere liberi ma siamo solamente legati ad un guinzaglio per cani, ci insegnano a non tirare e noi camminiamo al loro fianco, ci pestano le zampe e noi non ci facciamo caso perché dipendiamo da loro». Così, in fondo al pozzo dell’incomprensione scopro una richiesta comune di libertà e di senso. Ma mancano le parole condivise per parlarne, manca una concezione unanime di fake news, di fonte accreditata, di vero e di falso, di democrazia. Probabilmente le dirò che l’accusa di brogli elettorali è risultata infondata, che dietro l’assalto al Capitol Hill avevano agito le incitazioni social di Trump, ma non servirà a molto. Ormai mi è chiaro che il discorso non riguarda il piano verità-menzogna, ma il rapporto credito-discredito che coinvolge le fonti ufficiali, la democrazia e, in definitiva, il linguaggio. E questo perché l’attenzione al vero e al falso presuppone una fiducia nella capacità di comprendere la realtà, una fiducia che ora ha ceduto il passo a un tentativo ferino e comprensibile di ribaltarla, quella realtà, a prescindere da tutto. E a partire dal linguaggio.



Dallo storytelling al clash

Salmon fa allora notare una cornice più ampia: il punto ormai non sta tanto nella difficoltà di distinguere il vero dal falso (nozioni assolute ormai abbandonate); il punto sta proprio nella loro interscambiabilità (quella che comunemente viene chiamata post-truth). La veridicità di un enunciato è un cruccio novecentesco, un aspetto marginale, mentre ciò che importa ora è che quell’enunciato abbia una presa su di noi, che produca questo esercizio motorio a vuoto nel quale tutto l’Occidente si ritrova a sbracciare. Salmon cita un estratto del libro di Donald Trump, The Art of the Deal, pubblicato nel 1987: «Gioco con la fantasia della gente […]. La gente vuole credere che una certa cosa sia la più grossa, la più grande e la più spettacolare. Io chiamo ciò l’Iperbole veritiera». Questa frase anticipa, già alla fine degli anni Ottanta, il passaggio dallo storytelling al clash.

Per storytelling si intende il sapere che trasfigura valori fondamentali in temi, figure e – appunto – narrazioni condivise. Lo stesso storytelling, a sua volta, non è che una conseguenza della scomparsa delle ideologie nel dibattito pubblico. Il racconto diminuito dello storytelling dilaga nel corso degli anni Novanta dal marketing alla comunicazione politica, fino ad arrivare allo sviluppo personale. Nel corso del tempo la politica inizia a non parlare più il linguaggio delle grandi impostazioni teoriche, ma il linguaggio dello spettacolo: l’oratore diventa in prima persona personaggio della narrazione, le sue idee diventano la sua storia personale, tutto il suo corpo e il suo status civile raccontano al suo posto.

Berlusconi fu uno stratega dello storytelling. Allo stesso modo, però, i politici si trasformano in personaggi da commentare, aneddoti di una conversazione, smorfie della vita quotidiana. Secondo Salmon lo storytelling raggiunge il culmine con l’elezione di Barack Obama nel 2008, in cui la narrazione di superficie è un po’ questa: non importa che tu sia bianco o nero, povero o ricco, non importa quali siano le tue posizioni politiche, vivi in un Paese che potrebbe eleggere il suo primo presidente afroamericano, e puoi esserne fiero. Ma il 2008 fu anche l’anno della crisi dei subprimes, di una gigantesca ondata di disillusione che non investì solo il narratore (Obama), ma lo storytelling in toto (Obama personaggio). A ben vedere, questa decadenza dello storytelling può esser interpretata anche come la fisiologica evoluzione di una forma narrativa che si stava avvicinando troppo alla comunicazione quotidiana, e che a causa della sua inflazione andava già consumandosi. Oltretutto – aggiungerei – lo storytelling è quella cosa che non comunica verità ma orienta l’attenzione. È un racconto, appunto: attrae senza prove, con la sola forza della sua trama. È un qualcosa, quindi, sempre esposto non solo a una confutazione sul piano della verità, ma a una competizione con altre trame più attraenti. Così si passa dal dibattito sulle idee alla guerra dei racconti.

A che punto siamo oggi? Secondo Salmon siamo ormai giunti nell’era del clash, un linguaggio fondato sull’accostamento di enunciati volatili, sulla provocazione, sull’aggressività, sulla velocità e sull’agonismo, sulla negazione della trama. A guidare questo nuovo linguaggio non è più l’intreccio, il rapporto causa-effetto, il rapporto prima-dopo. A pensarci bene, a guidare questo linguaggio non è più nessun tipo di rapporto. È un’aggressione mentale sorretta dallo shock, che impone certo una cornice “narrativa”, ma data dalla ripetizione martellante di alcune parole, di alcune frasi, piuttosto che di una storia dotata di un inizio, uno svolgimento e una fine. Il clash preferisce il campo semantico alla sintassi. È il linguaggio al tempo in cui è stata eliminata la durata, e quindi la storia, e quindi una ratio comune. Ed è, inoltre, una comunicazione collassata, privata della sua fiducia nel valore referenziale del linguaggio.

David Denby, critico cinematografico del «New Yorker», ha prelevato un campione da un discorso di Trump che mostra bene questa disarticolazione logica e grammaticale, questa continua esplosione di enunciati slegati e veri nel solo essere perentori (e quindi anti-dialoganti): «La paura, il pericolo, la stupidità. Stupidità! Le sorti della nazione sono in gioco. La sicurezza personale della gente è in gioco. Accade qualcosa di “terribile”. Non possiamo vivere così. Andrà peggio. Vedrete dei nuovi World Trade Center. Andrà peggio. Non possiamo essere politicamente corretti, non possiamo essere stupidi, e andrà peggio».

Black hole

Black hole | Steve Hammond / Flickr

Volatilità

Così l’accelerazione penetra nel linguaggio, spezza i nessi e sprigiona la volatilità del linguaggio stesso: un continuo riadattarsi dei frammenti senza coerenza, un continuo riciclo e sdoppiamento di informazioni. La volatilità è un’accelerazione senza vettore, perché ciò che conta non è più la verità dell’enunciato, ma la sua spendibilità. In questo la volatilità dell’informazione non è che la diretta emanazione digitale (oltre che linguistica) di un pilastro fondante del neoliberismo: quanto più una cosa è fluida e adattabile, tanto più è spendibile; quanto più è spendibile, tanto più genera profitto. La volatilità è, in sostanza, la precarizzazione del linguaggio. «La linearità narrativa viene cancellata a vantaggio degli choc incoerenti e spettacolari che hanno un effetto polarizzante e che accrescono ulteriormente la volatilità degli scambi […].  Accelerazione. Discredito degli enunciati e dei narratori, che richiede dei controenunciati ad opera di contronarratori. Moltiplicazione degli avvenimenti discorsivi automatici, a specchio. Preminenza del codice sul contenuto, della speculazione sulla trasmissione, delle fake news sui fatti. Legge della trasgressione marginale. Dissoluzione del possibile mediante la logica algoritmica», scrive Salmon.

In questo modo gli algoritmi delle grandi piattaforme prediligono la riproposizione di contenuti radicali e quindi più virali. Il paradiso in cui troviamo esattamente ciò che vogliamo si trasforma in un inferno da cui è impossibile uscire. In breve, i social eliminano il conflitto dalla piattaforma eliminando il confronto, per poi riprodurlo nella società. Bandiscono il contrasto silenziando la molteplicità di punti di vista, salvo poi farla rientrare dalla finestra sotto forma di guerriglia, di clash. D’altronde, aggiungerei, questo riproduce in maniera esatta uno degli scopi della tecnica: addomesticare il conflitto (inteso come l’Altro fonte di pericolo). Il che non vuol dire creare una società meno violenta, ma creare una società in cui la violenza sia educata e messa a profitto. E il profitto, al momento, è lo stesso del neoliberismo.

Non a caso anche le regole della finanza sono quelle della volatilità. Le grandi aziende ormai esternalizzano più o meno ogni attività, tranne la capacità decisionale finanziaria, attenta alla gestione del marchio ma svincolata dalla produzione effettiva. Così l’obiettivo di un’azienda è diventato collocarsi nel settore finanziario, là dove il capitale assume la massima mobilità, diventando a sua volta in grado di seguire al meglio le oscillazioni in borsa. Tutto il resto viene esternalizzato, i contratti di collaborazione sostituiscono i contratti da dipendente, proprio per garantire un rapido adeguamento dell’attività produttiva ai cambiamenti del capitale. In sostanza, per dirla con le parole di Colin Crouch in Postdemocrazia, «la capacità di decostruzione è la forma più estrema assunta dal predominio dell’azienda nella società contemporanea».

Crollo di Bitcoin a seguito della chiusura di Silk Road, 2013.

Crollo di Bitcoin a seguito della chiusura di Silk Road, 2013. | Marc Van Der Chijs / Flickr


Democrazia al collasso

E anche qui, non è un caso che la crisi della democrazia si stia manifestando in questo momento storico. L’invasione delle dinamiche neoliberiste in ogni aspetto della società (compreso il linguaggio) non può che determinare la morte del ruolo dello Stato, della politica e dei mediatori democratici, come il giornalismo. Il punto di equilibrio raggiunto nella democrazia liberale è sempre più incrinato, le due forze non sono più complementari ma contraddittorie. In sostanza, quanto più il neoliberismo si gonfia, tanto più la democrazia retrocede. E questo per un motivo evidente già evidenziato da Crouch: il capitalismo produce fisiologicamente una concentrazione di ricchezza privata, dotata di un certo potere contrattuale nei confronti della politica. In questo modo «andiamo verso la formazione di una nuova classe dominante, politica ed economica, i cui componenti non solo hanno potere e ricchezza in aumento per loro conto via via che le società diventano sempre più diseguali, ma hanno anche acquisito un ruolo politico privilegiato che ha sempre contraddistinto l’autentica classe dominante. Questo è il fattore centrale di crisi della democrazia all’alba del XXI secolo».

Questa realtà, aggiungerei ora, attraverso la tecnica – per il momento ancora asservita alle logiche neoliberiste – produce un collasso del linguaggio; e attraverso l’impotenza della politica produce un collasso della democrazia. I due piani, ovviamente, si incrociano. Così i governi non possono che limitarsi a sbrigare gli affari correnti, o al massimo a rallentare o accelerare il passo in un senso di marcia che, però, è stabilito altrove. I politici non possono che differire promesse nelle quali loro stessi non credono, ben consapevoli della loro effettiva impotenza («governare vuol dire mantenere la suspense», e Mario Draghi lo sa bene). Così la comunicazione politica si trasforma in un’azione di marketing, si svuota di idee squisitamente politiche per lasciar spazio all’appeal del candidato, un buon attore in grado di catturare momentaneamente l’ascolto del suo pubblico (o meglio, il voto dell’elettore), ma incapace di nominare l’unica proposta in grado di liberarlo da questa condanna alla pantomima: il ridimensionamento del neoliberismo. In questo modo si consuma la credibilità dei mediatori democratici, in questo modo anche il linguaggio politico viene deteriorato dall’abuso, dalla volatilità e dell’impotenza.

Se la politica si riduce a campagna di comunicazione perché priva di agency, infatti, è costretta ad aumentare i giri delle frasi, a crearne di più attrattive, e – molto banalmente – a contrapporre racconto a racconto, parola a parola. Il linguaggio, nell’era della sua riproducibilità tecnica, perde di valore, scade nella sua stessa inflazione: l’accostamento convulso di racconti contrastanti fa emergere l’ambiguità della narrazione priva di una relazione con la realtà, e poi, per estensione, l’ambiguità del linguaggio stesso. Al di là di questo, resta solo qualche relitto novecentesco che sa di restaurazione, come il ritorno a un “rassicurante” Biden, la (vecchia) nuova passione italiana per i democristiani, qualche residuo di welfare, sindacati atoni, scollegate operazioni di debunking e censure social. Tutti tentativi di vocalizzare un contenuto che non si riesce più a nominare, per paura, per confusione o per impotenza. «È il rumore terribile del mutismo che ha ancora il suono del linguaggio, ma non è più linguaggio. È soltanto un’esplosione, esplosione d’angoscia, esplosione di disperazione, esplosione di coraggio», diceva Broch nel 1934.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Alice De Gregoriis

(1994) è redattrice, editor e giornalista freelance. Scrive soprattutto di letteratura, società e cultura. Suoi articoli sono apparsi per DINAMOpress, Altri animali, La Balena Bianca e altre riviste.

Pubblicato:
30-04-2021
Ultima modifica:
12-05-2021
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