Il lavoro non ti ama (ma tu cosa provi?) - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Lavoro, Francia, 2006.
Lavoro, Francia, 2006. | Copyright: JR_Paris / Flickr

Il lavoro non ti ama (ma tu cosa provi?)

Nel suo saggio “Patologie del lavoro”, Rahel Jaeggi, docente di filosofia alla Università Humboldt di Berlino, prende in considerazione "gli sviluppi sociali aberranti del lavoro." Una lettura.

Lavoro, Francia, 2006. | Copyright: JR_Paris / Flickr
Silvia Gola

lavora nell'ambito della comunicazione. Fa parte di Acta, per cui svolge una ricerca su audiovisivo ed editoria in merito al mercato del lavoro.

C’è un bel saggio di Rahel Jaeggi che si intitola “Patologie del lavoro” nel quale l’autrice prende in considerazione «gli sviluppi sociali aberranti del lavoro, al fine di chiarire, attraverso l’analisi di fenomeni negativi, il contenuto positivo del termine e del senso del lavoro nelle società moderne».

Partendo dalla definizione di “lavoro” inaugurata da Hegel  in Lineamenti di filosofia del diritto - nel quale esso equivale a «condividere, partecipare o prendere parte delle risorse generali della società»-, Jaeggi si discosta dai toni dell’accelerazionismo e dell’anti-lavorismo, e mostra come al netto di sviluppi nefasti e condizioni perniciose, il lavoro abbia per gli individui un valore, tanto nell’auto-percezione quanto nella considerazione sociale presso i propri pari.

L’intuizione di base del testo di Jaeggi è che la nostra ricerca di significato e identificazione con il lavoro è, anche nelle occupazioni tradizionalmente non ritenute ad alto tasso creativo, una delle molle che ci spinge a scegliere un percorso lavorativo piuttosto che un altro: «È proprio perchè ci aspettiamo di trovare un significato nel nostro lavoro e tentiamo di ritagliare uno spazio non alienante all’interno di condizioni di lavoro obiettivamente alienanti che siamo vulnerabili allo sfruttamento (ossia è proprio il non trovare significati non alienati che contribuisce alla nostra vulnerabilità)».    

Per Jaeggi, il lavoro si muove secondo due assi valoriali: il tempo da dedicarvi e l’identificazione tra il sé e il proprio ruolo.

«Ci troviamo infatti di fronte a un mercato del lavoro diviso, che presenta problemi molto diversi a seconda della posizione che si occupa all’interno di esso. Troppo lavoro da un lato, troppo poco dall’altro, troppa identificazione e aspettativa di identificazione (quando non vera e propria compulsione all’identificazione) da un lato; troppe poche opportunità di identificazione dall’altra.

Ciò che vediamo, quindi, sono da un lato i fenomeni molto classici del lavoro non specializzato e non valorizzato, dovuti a condizioni di lavoro che rendono i lavoratori intercambiabili rispetto alle loro capacità e personalità. Mentre, all’opposto, abbiamo a che fare con un lavoratore del tutto flessibile, il cui tempo libero è trasformato in tempo di lavoro e il cui potenziale creativo può essere sviluppato solo a costo ch’esso investa tutta la sua personalità nel lavoro».

Ho letto questo testo compulsando le pagine, e poi mi sono divertita a estrapolare una sorta di quadrato semiotico: incrociando i due assi, ho dato un nome ai fenomeni non inventariati dall’autrice (la quale, verso la chiusura del saggio, parla di patologie come “essere disoccupati”, “ essere sottopagati” o “essere alienati”); ne risulta unatassonomia delle conseguenze psico-sociali di cui si può soffrire nell’odierno mercato del lavoro: 

●     troppo lavoro e troppa identificazione: perdita del sé

●     troppo lavoro e troppa poca identificazione: perdita del senso

●     troppo poco lavoro e troppa identificazione: insoddisfazione

●     troppo poco lavoro e troppa poca identificazione: “lavoretti”

Lavoro, UK, 2007

Lavoro, UK, 2007 | Ross Burton / Flickr

Ora, è evidente che a questo schema manca il terzo elemento che incide sul tempo che si dedica alla propria occupazione e di conseguenza sulla diade troppo lavoro/troppo poco lavoro: la remunerazione. Per Jaeggi, questa deliberata assenza si spiega così:

«Se abbiamo a che fare con patologie del lavoro in quanto lavoro (e non con gli effetti o la ricompensa materiale che otteniamo dal lavoro), allora dovrebbe sembrare ragionevole cercare di diagnosticare tali patologie sulla base di una nozione di lavoro ben riuscito, ricco di significato o appropriato».

E tuttavia, almeno per quello che attiene i settori culturali e creativi, è noto che i lavori del terziario cognitivo siano da anni interessati da un incessante processo di esternalizzazione, trend che non sembra in procinto né di invertirsi né di indebolirsi, perché esternalizzando  si comprime il costo del lavoro. Da ciò deriva un fiorire di lavoratori e lavoratrici freelance che non sono tutelati dai CCNL (contratti collettivi nazionali del lavoro) e che non percepiscono uno stipendio fisso ma dei compensi da negoziare di volta in volta con il cliente/committente.

Cosa c’entra questo con le variabili “tempo” e“identificazione”, però? Come forse si intuisce, è proprio per questo tipo di lavori creativi e culturali, più che per gli altri, che vale la pena ricordare che lavorare a partita iva obbliga  a farsi i conti in tasca e a trovare un compromesso accettabile e dignitoso tra il monte ore da dedicare a un progetto e il compenso. Quando va bene, si propone un preventivo e parte la negoziazione; quando va male, può succedere di accettare una cifra (al ribasso) già decisa (dall’alto).           

Sono tutti professionisti che rientrano nel paradigma dell’entreprecariat (“imprendicariato”, in italiano), dove la domanda di fondo “Imprenditore o precario?” rimane spesso inevasa, e dove,che ci sia troppo lavoro o che ce ne sia troppo poco sono comunque tutti figli della troppa identificazione.

Il lavoro è uno dei modi nei quali veniamo definiti quali soggetti politici e sociali, e non solo in termini di sussistenza: anche il nostro valore sociale e la nostra dignità sembrano venir mediati dal lavoro. 

All’inizio di un articolo pubblicato nel 2021 su Aeon – “The tyranny of work” di Jamie McCallum – un intervistato ammette che: «I knew I had to make something of myself, and I thought work was how you did it»[1].

Lavoro, Bahrain, 2010

Lavoro, Bahrain, 2010 | ILO / Flickr

E dunque, meglio scegliere un’occupazione che piaccia, che ci corrisponda, piuttosto che il contrario, no?

A un certo punto dell’età adulta post-scolare, la giornata ruota intorno al lavoro: le restanti attività — che pure danno altrettanto piacere e identificazione — rimangono schiacciate ai lati, possono essere ignorate, rimandate, annullate, dimenticate. Certo, perché il lavoro è l’unica attività che abilita tutte le altre: il lavoro va fatto (e cercato) perché altrimenti non si mangia, non si paga l’affitto, non si viaggia, .

La questione urgente, qui, non è opporsi al fatto che si deve lavorare e quindi si lavora; il problema è aver concesso troppo spazio al lavoro in termini di costruzione dell’identità e aver lasciato che altri ambiti della vita diventassero quasi residuali, aver dato modo al lavoro di espandersi fino agli ambiti tipicamente riservati alle relazioni, aver creduto per decenni che l’auto-realizzazione nel lavoro fosse l’unica possibile e degna.      

Sempre dall’articolo di Aeon: «It’s easy to understand why people actually work, but given how odious and arduous it is, what sustains the belief that work is good for us?»[2].

Lavoro, USA, 2010

Lavoro, USA, 2010 | Bark / Flickr

Ne “Il lavoro non ti ama” (Minimum Fax, 2022) Sarah Jaffe scrive che con «[...] sempre meno tempo per la nostra vita personale, siamo ancora più incentivati a fare del nostro lavoro qualcosa da amare, magari cercando nel lavoro l’amore che ci manca altrove. [...] L’amore, del resto, dovrebbe essere quella risorsa illimitata che alberga in ognuno di noi: se l’ambiente di lavoro è una famiglia, amarlo dovrebbe essere naturale, no?» (Sarah Jaffe, “Il lavoro non ti ama”, pag. 27).

Il libro di Jaffe, è un crocevia attraversato da tutta una serie di questioni che riguardano il senso del proprio lavoro e l’investimento emotivo in esso: è un testo che non aggiunge elementi significativi alle cose già note sul tema, ma nella sua funzione di raccordo è utile per tenere insieme molte delle elaborazioni autoriali e collettive degli ultimi decenni.

È l’erede e insieme il contraltare di “Bullshit Jobs” di  David Graeber, un testo i cui contenuti sono stati inizialmente un articolo,  e sono poi “esplosi” in un libro-reportage: in esso viene messo a tema l’emergere e il proliferare di tantissimi lavori di nessun valore nella nostra epoca tardo-capitalista, nella quale la gamma di sentimenti per il proprio lavoro va dall’indifferenza all’odio; i “lavori del cavolo” di Graeber, ritenuti «pointless» – senza senso, senza scopo – non proiettano promesse de bonheur né fanno scaturire sentimenti di attaccamento. Tantomeno l’amore.  

In Jaffe, invece, l’amore è il Leitmotiv che scandisce il rapporto con il proprio lavoro; che sia una devozione agàpica o un’attrazione erotica, sembrerebbe comunque che il segreto per svolgere alcune mansioni sia proprio amarle.        

Le commesse, le lavoratrici domestiche, gli insegnanti e le lavoratrici del terzo settore che popolano la prima parte del libro finiscono tutti per prendersi cura del proprio lavoro, ed esperiscono così un attaccamento di tipo agàpico – dove con ‘agàpe’ intendiamo la sfumatura più spirituale e caritatevole dell’amore. D’altro canto, nella seconda parte della lunga elaborazione di Jaffe, nella quale l’autrice si occupa delle stagiste, dei creativi, degli sportivi, delle accademiche e dei programmatori, ci troviamo dinanzi a individui che nei confronti della propria occupazione (reale o desiderata) nutrono  un’attrazione simil-erotica, un’abnegazione totale che ha a che fare con l’idea che, solo attraverso un certo tipo di produzione, al lavoratore sarà concesso accedere a un grado maggiore di “sé-stessitudine” e realizzazione. Nelle parole di Jaffe:         

«L’attaccamento romantico dell’artista nei confronti della propria opera è l’equivalente dell’amore familistico che le donne sono tenute a provare per il lavoro di cura, due metà che insieme compongono la narrativa del lavoro per amore che ha dato forma alla percezione del lavoro ai giorni nostri» (pag. 266).

Ma non è sempre stato così, non abbiamo sempre cercato identificazione e realizzazione personale nel lavoro: nella ricostruzione di Jaffe, questa sostituzione dei piani è da rintracciarsi nell’irrobustirsi del tardo-capitalismo giunto alla sua fase estrattiva (come ben spiega l’economista Marianna Mazzucato in “Il valore di tutto”) e che prende vigore dagli anni Settanta, ovvero: quando si è finito di estrarre valore dal tempo di lavoro, si prosegue a estrarlo dalla sfera personale e relazionale:

«Al posto della sicurezza economica – concetto chiave dell’etica industriale in un’ottica in cui si lavorava per tutta la vita per guadagnarsi la pensione – ciò che gli viene offerto è la realizzazione personale. E la sfera personale – proprio quella che il capitalismo di una volta tentava di minimizzare – all’improvviso è diventata un requisito del nuovo lavoro: ciò che oggi ci viene richiesto sono i nostri sentimenti, le nostre amicizie, il nostro amore» (pag. 32).

E così, l’assetto capitalista, arrivato alla sua dimensione più subdola ed emotivizzata, è riuscito nella sua manipolazione più estrema: «[...] convincerci che il lavoro fosse il nostro più grande amore» (pag. 480).

In questo senso, il “lavoro del cavolo” di Graeber e il “lavoro dei sogni” di Jaffe convergono verso lo stesso punto: è dentro i rapporti di forza, dentro il disaccordo fondante tra chi dà lavoro e chi ne ha bisogno e lo cerca – insomma, nel conflitto tra capitale e lavoro –, che si annida lo sfruttamento:

«Sfruttamento non vuol dire solo avere un lavoro di merda. Questo è un fraintendimento impostoci dalla mitologia del lavoro per amore. Sfruttamento è il lavoro salariato in un sistema capitalistico, dove il tuo lavoro produce più valore di quanto ne giustifichi il tuo stipendio. Sfruttamento è il processo attraverso il quale qualcun altro trae profitto dal tuo lavoro. [...] Il lavoro per amore è solo l’ultima maschera dietro cui si è nascosto lo sfruttamento, una maschera che tuttavia i lavoratori stanno iniziando a strappare via» (pag. 39).

Lavoro, USA, 2009

Lavoro, USA, 2009 | Logan Ingalls / Flickr

Sembra, effettivamente, che si stia facendo strada l’idea per cui non possiamo andare avanti così: la fatale combinazione delle due crisi – quella iniziata nel 2008 e quella derivante dalla pandemia da covid-19 – sta di certo contribuendo a farci ripensare il modo in cui ci rapportiamo al nostro lavoro.

Dall’America arrivano gli echi del The Big Quit (“Le Grandi Dimissioni”), fenomeno che in Italia non è ancora esploso ma che sta facendo i suoi numeri, mentre in altri Paesi si sperimenta la settimana lavorativa breve e in altri ancora è tornato sul tavolo il tema del congedo mestruale.

Gli spunti per risemantizzare il proprio lavoro e riportarlo a un discorso di ordine giuslavoristico continuano ad arrivare da tutti i punti del quadrato semiotico che emerge dal saggio di Jaeggi: sia da parte di chi lavora troppo sia da chi lavora troppo poco, da chi gioisce dell’identificazione con ciò che fa e da chi invece si vede negata questa corrispondenza.

Perché, in definitiva: «Vogliamo chiamare lavoro quello che è lavoro, per poter riscoprire cos’è l’amore».[3]

 

 

______________________

Note

[1] «Sapevo di dover fare qualcosa di me stesso, disse, e pensavo che il lavoro fosse il modo più giusto».

[2] «È facile capire perché le persone lavorino, ma visto quanto odioso e duro è il lavoro, cosa sostiene la convinzione per cui lavorare fa bene?».

[3] Silvia Federici, «Wages Against Housework», Power of Women Collective e Falling Wall Press, 1975, consultabile su Caringlabor.wordpress.com.



Hai letto:  Il lavoro non ti ama (ma tu cosa provi?)
Questo articolo è parte della serie:  Recensioni
Globale - 2022
Arti
Silvia Gola

lavora nell'ambito della comunicazione. Fa parte di Acta, per cui svolge una ricerca su audiovisivo ed editoria in merito al mercato del lavoro.

Pubblicato:
23-06-2022
Ultima modifica:
26-06-2022
;