Il nome delle nostre crisi - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Il nome delle nostre crisi

Aggiornare il concetto di "crisi della presenza" di fronte al collasso climatico ed ecologico.

Ariele Di Mario

ha studiato Lettere Moderne e Antropologia Culturale all'Università di Bologna. Ha scritto per Parte del discorso e condotto Mezz'ora d'eco, un programma radiofonico di ecologia politica su RadioSpore. Si interessa del rapporto tra natura e cultura, in un’ottica di superamento dei loro confini, di attivismo ambientale, di poesia sociale.

Nel saggio La fine del mondo, uscito postumo a fine anni ’70 ma recuperato da un’altra edizione Einaudi ora aggiornata nel 2019, è stata messa in luce quell’ampia riflessione sul senso di apocalisse umano che ha caratterizzato gli ultimi anni di vita di Ernesto De Martino. Già a maggio del 1964, durante un convegno internazionale a Perugia su Il mondo di domani, l’antropologo italiano esponeva alcuni esiti della sua ampia ricerca, portando come esempio la storia del suo incontro con il “pastore di Marcellinara”. Anni prima, mentre De Martino si trovava con il suo gruppo di ricerca in Calabria, ad un anziano del posto furono chieste alcune indicazioni stradali. Per comprendere meglio le sue parole, il gruppo fece salire in macchina il pastore, offrendogli di riportarlo successivamente a casa. Fu a questo punto che quest’ultimo, nel momento stesso in cui dal finestrino della macchina non riusciva a scorgere il campanile del suo paese di origine, fu scosso da un crescente senso di inquietudine. Riportato subito indietro, in balia di un attacco d’ansia, l’anziano riuscì a calmarsi solo dopo aver riacquisito la vista di quella costruzione, simbolo della sua patria momentaneamente perduta. In questo senso l’episodio può diventare archetipico per il concetto cardine degli studi di De Martino: la “crisi della presenza”.

Termine elaborato a partire dalla filosofia di Heidegger e dall’esistenzialismo italiano di Enzo Paci e Nicola Abbagnano, per perdita di presenza si intende quell’angoscia universale di “non esserci” nel momento presente a causa di una momentanea messa in crisi del nostro orizzonte culturale e valoriale. Questa avviene ad esempio in seguito alla scomparsa del proprio mondo domestico (perché “addomesticato” dal nostro viverci), come è accaduto al pastore di Marcellinara. Accade anche con l’irruzione della morte di un nostro conoscente, che ad esempio viene assimilata e superata attraverso specifiche credenze religiose (e non) e pratiche ritualizzate. È così che si supera, tramite quel meccanismo che l’antropologo chiama “ethos del trascendimento”, quel senso di sgomento che ci può cogliere in piccolo e in grande durante tanti momenti di passaggio della nostra vita.

Ma se per De Martino la crisi della presenza (non più tipica di quel “mondo magico” del Sud su cui si focalizzarono gran parte delle sue etnografie) è infine stata individuata come tendenza tipica della natura umana, questa può richiedere differenti e contestuali meccanismi di risoluzione, a seconda dell’evoluzione storica e culturale di questo spaesamento. Il mondo del dopoguerra negli anni ’60 ad esempio, agli occhi dell’antropologo campano, già appariva diametralmente cambiato: «Il problema centrale del mondo di oggi appare dunque la fondazione di un nuovo ethos culturale non più adeguato al “campanile di Marcellinara”, ma all’intero pianeta terra, che ormai gli astronauti contemplano dalle solitudini cosmiche e che sta di fatto diventando, per quanto attraverso contraddizioni e resistenze, la nostra patria culturale fondamentalmente unitaria».

Il campanile di Marcellinara

Il campanile di Marcellinara

Sono gli albori della globalizzazione e del consumismo cosmopolita, della capacità sempre più ampia di «immaginare nuovi modi di vita», come indica Arjun Appadurai in Modernità in polvere (2012), e di conoscerci e connetterci gli uni con gli altri ad una velocità mai vista prima. In questo mondo globale e interconnesso allora, scosso ormai da una sistemica crisi economica, dalla recente minaccia pandemica e dall’imponente collasso climatico ed ecologico, siamo portati a preoccuparci sempre di più di ciò che ci è distante. Questo perché ormai tutto ciò che accade nel mondo, seppure lontano, sembra riguardarci sempre più da vicino. Oltre alla pandemia, non ce la passiamo proprio bene. Dalla nostra relativa distanza osserviamo attenti le inondazioni di paesi come il Bangladesh, gli incendi in Australia, California, Amazzonia e Siberia dello scorso anno, i recenti allagamenti in Germania e Belgio. Allo stesso modo pensiamo alle città della nostra penisola allagatesi in questi ultimi anni (Palermo, Genova, Venezia) o all’impatto che le grandi ondate di calore stanno avendo in territori come la Sardegna che quest’estate, con la complicità dolosa umana, hanno contribuito a incendiare 20mila ettari di terreno. In The Divide (2018) Jason Hickel fa notare quanto la forbice di disuguaglianza economica del pianeta si stia sempre più ampliando, con un aumento del 20 per cento delle persone a rischio fame nel 2050 e un consequenziale incremento delle migrazioni indotte dal clima. L’antropologo ricorda infine, mentre il permafrost siberiano rilascia sempre più metano e le emissioni terrestri stentano a diminuire, che l’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) considera un aumento della temperatura media globale di 4°C «incompatibile con la civiltà umana così come la conosciamo».

Un sentore apocalittico globale era già presente negli ultimi anni di ricerca di De Martino, già notevolmente appesantiti dalle dimensioni inaudite dei conflitti mondiali e, in seguito, dalla minaccia costante della Guerra fredda. È allora proprio all’interno di questo clima culturale che l’antropologo aveva in mente di strutturare una ricerca multidisciplinare. Questa avrebbe coinvolto anche i campi della filosofia, della storia delle religioni, della psicologia e della psichiatria, per indagare più ampiamente possibile le esperienze estreme di spaesamento umano. È così che, anche grazie al confronto con il terapista Giovanni Jervis, iniziò ad analizzare e distinguere due tipi di apocalisse: quella culturale e quella psicopatologica. Quest’ultima, secondo l’antropologo, consisterebbe nella sensazione di apocalisse senza possibilità di eschaton (riscatto) alcuno, tanto da poter consolidarsi in un disturbo psicopatologico. Esemplare è l’altra storia del contadino di Berna a cui negli anni ‘40 era stata diagnosticata una forma di Weltuntergangserlebnis (“vissuto di fine del mondo”). Il giovane infatti si era convinto, dopo lo sradicamento della grande quercia in giardino e del presunto allagamento del terreno, di essere irrimediabilmente responsabile dell’ormai sopraggiunta fine del mondo.

Traslandola ai giorni d’oggi − De Martino cita il filosofo Emmanuel Mounier − l’apocalisse moderna è del tutto differente da quelle del passato, poiché «nasce dal crollo delle due grandi religioni del mondo moderno, il Cristianesimo e il razionalismo». A questi due aspetti De Martino aggiunge il credo politico che, come la religione, preannuncia un futuro di riscatto (al rassicurante Regno dei cieli può corrispondere allora la società comunista sulle ceneri della dittatura del proletariato). Ma il Marxismo non ha avuto vita facile, l’influsso del Cristianesimo sulla nostra cultura è di certo stato ridimensionato, e la scienza, seppure le crediamo sempre più fermamente, sembra non bastare più al nostro sollievo collettivo. La “tecnica laica” di matrice scientista, come la chiama l’etnologo Enzo Alliegro in Out of place, out of control (2020), dopotutto sembra essere il principale dispositivo culturale che la nostra società globalizzata si è dotata per risolvere le sue concatenanti crisi della presenza. Già De Martino scriveva di come questa scienza e tecnica dell’occidente non solo a volte risultavano fallaci nel risolvere queste crisi, ma ne potevano essere gli stessi detonatori (in questo caso, nucleari).  La scienza è ancora oggi paradossale: complice del progresso economico e industriale che ha portato in meno di un secolo al collasso climatico ed ecologico, è la stessa che (grazie agli stessi modelli previsionali sviluppati durante le guerre mondiali) ci fornisce di una miriade di dati che ci allertano e tramite i quali possiamo prospettare alcune parziali strade di salvezza. Ma come stiamo reagendo emotivamente e psicologicamente a tutto ciò? Scriveva allarmato De Martino, ricollegandosi alla “nausea” di Sartre o all’“indifferenza” di Moravia, che «l’esperienza attuale della fine del mondo è patologica», poiché si presenta nella forma di un “essere-agiti-da” qualcosa di esterno che mette a rischio l’intero ordine mondiale e che non ha alcuna possibilità di risoluzione. Da un senso di apocalisse culturale si rischiava così di passare a un senso di apocalisse psicopatologico.

In questa società che il filosofo Byung-Chul Han vede ingabbiata Nello sciame (2015) di un’informazione contagiosa e chiassosa, non basta più toccare con mano le conseguenze dei cambiamenti climatici per preoccuparsi del disastro ecologico che è già in corso. Una recente ricerca uscita su Frontiers in Psichiatry ha tracciato centinaia di articoli accademici che hanno messo in luce come i fenomeni legati ai cambiamenti climatici, oltre ad intaccare la salute mentale dei soggetti esposti direttamente ad eventi catastrofici, influiscono anche indirettamente sulla salute della popolazione e si affiancano alla comparsa di una miriade di nuovi termini diagnostici. L’antropologa Susan Wardell li ha definiti genericamente come ecological distress: tre di questi, presi ad esempio perché più diffusi nella cultura di massa o entrati varie volte a far parte di alcuni studi accademici, sono il climate despair, l’eco-anxiety e la solastalgia. Come ricorda Giovanni Pizza nel suo manuale di Antropologia medica (2005), la legittimazione di un disturbo è sempre conseguente al suo riconoscimento sociopolitico, connesso a specifici rapporti di forza. In questa sede quindi non è necessario valutare la validità scientifica di questi termini (non ancora inseriti nel DSM, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders americano), ma sarà forse opportuno mettere in luce come l’emergere di nuovi concetti possa indicare la necessità, per alcune persone, di dare un nome ad una sofferenza reale.

Si è iniziato a parlare di climate despair «per descrivere quel senso di impotenza di fronte alla crisi climatica quale forza irrefrenabile che farà estinguere, eventualmente, l’umanità e che rende la vita nel frattempo essenzialmente vana», descrive il web magazine italiano Due Gradi Coniata da Eric Pooley in The Climate War. True Believers, Power Brokers, and the Fight to Save the Earth (2010) , l’espressione è stata diffusa mediaticamente in seguito a varie testimonianze raccolte da un articolo di Vice. In una di queste, la giovane insegnante dell’Ontario Meg Ruttan Walker ha raccontato di essere stata colpita da climate despair durante la caldissima estate del 2015, preoccupata per il futuro di suo figlio appena nato, presentando disturbi ansiosi e pensieri autolesionisti di cui non aveva mai sofferto. Un altro termine che sembra – già dal nome – voler affiancarsi a categorie cliniche legittimate è l’eco-anxiety, comparso per la prima volta in un articolo del 1990 del Washington Post, fino a giungere all’interno del report Mental Health and Our Changing Climate pubblicato dall’APA (American Psychological Association) nel 2019. Il report definisce “ecoansia” una paura cronica del disastro ambientale, affiancata a sensazioni di perdita, rabbia, paura e frustrazione. In ultimo, presente anch’essa nel glossario dell’APA, la solastalgia. Termine coniato da Glenn Albrecht nel 2003, è stato definito come un’esperienza diretta di perdita identitaria, di fronte alla graduale trasformazione e degrado del proprio territorio domestico, che da nostalgia di casa può culminare in una cronica condizione di desolazione psicologica. Nel suo ultimo libro Earth Emotions. New Words for a New World (2019) il filosofo australiano mette all’allerta dal diagnosticare una condizione emotiva che, piuttosto, può mettere in luce disturbi futuri, tipici di quella che chiama la contemporanea «era della solastalgia». Un quadro clinico della nostra società a cui, in parte, sembrava essere approdato lo stesso De Martino.

Eco-nihilism, doomism, ecoguilt, global dread: i termini che si affiancano ai primi tre analizzati sono tanti e sembrano richiedere determinate forme di ascolto e precisi dispositivi culturali di risoluzione. Allora quali terapie di cura sono nate e quali richieste, per superare questa dilagante crisi della presenza?

Lo stigma universale che l’uomo porta con sé di fronte al paradigma dell’Antropocene, seppure la crisi odierna abbia responsabilità e dinamiche di sfruttamento e di potere precise (come ci ricorda Jason Moore), ci porta di certo ad un anelito di ricongiunzione con la Natura. Questa, seppure si possa considerare “buona” o “in perfetto equilibrio” solo perché ce lo dicono alcune lenti della nostra cultura, sembra ricordarci, assieme alle sue creature vegetali, minerali e animali, una casa o una genuinità a cui sentiamo di doverci ricongiungere. È per questo che di fianco al mito dell’Antropocene sono stati proposti termini come lo Chthulucene di Donna Haraway o il Symbiocene dello stesso Albrecht, da lui intesa come un’era in cui l’uomo «possa riconoscersi interconnesso alla vita senza fine», potendo così reintegrare sé stesso e la sua cultura all’interno di questa. Sono innanzitutto benefici allora, quei programmi di reinserimento nella natura che si raggruppano sotto il nome di ecotherapy, e che già da molti anni favoriscono la riabilitazione da disturbi mentali o depressivi. Ma per far fronte a sempre più specifici e nascenti malesseri come l’eco-anxiety, alcuni psicologi consigliano non solo di utilizzare canoniche terapie cognitivo-comportamentali per disturbi d’ansia generalizzati, ma di intervenire con trattamenti specifici ed essere, come terapisti, nella reale consapevolezza delle tematiche sui cambiamenti climatici. È così che sono nate figure di eco-psychologist come Mary Jane Rust, intervistata dalla BBC, integrazioni di terapie già note come il M.I. (motivational interviewing), che la psicanalista Renee Lertzman ha affinato per trattare casi da lei definiti environmental melancholia, o nuovi approcci di gruppo come il Good Grief Network, che partendo dal modello degli alcolisti anonimi è finalizzato a trasformare emozioni negative sul nostro destino in azioni significative per l’ambiente.

Per far fronte a questa sensazione di fruitori passivi del nostro presente minaccioso, De Martino indicava l’importanza di meccanismi culturali come il rito e il mito. Anche noi, del resto, ci circondiamo di piccoli rituali quotidiani con uno sguardo verso la crisi climatica: bere da una borraccia non di plastica, comprare prodotti ecosostenibili o equosolidali, differenziare ritualmente ogni materiale. Queste, oltre ad essere azioni giuste ed etiche da perseverare, sono anche pratiche che, in certi casi, possono farci sentire a posto con noi stessi (e con il mondo). Resta solo da fare attenzione a quel paradosso senza fine di cui ci avvisava Mark Fisher in Realismo capitalista (2018), per cui anche gli stessi apparenti anticorpi allo status quo possono essere inglobati all’interno del sistema produttivo neoliberista (ormai travestitosi di greenwashing). L’azione del singolo inoltre, non basta per risistemare la complessità del mondo disastrato che ci sta di fronte. Ma sentiamo comunque la necessità di comprenderlo più ampiamente. In La scomparsa dei riti (2021) Byung-Chul Han sostiene che dalla produzione della conoscenza umana siamo passati al sapere prodotto dalle macchine, dal mito siamo giunti al “dataismo”. Sono proprio i dati scientifici, d’altronde, che ci informano del livello di surriscaldamento globale così come del numero dei contagi da Covid-19. Sono i dati che, con la stessa ambivalenza già citata, ci terrorizzano e allo stesso tempo ci permettono – o perlomeno ci fanno credere – di poter avere sotto controllo il nostro presente.

Ma la scienza non basta, e per Han è necessario ristabilire un tempo sacro che dia spazio al rito e al gioco, non alla continua coazione a produrre, in modo che si crei una comunità stabile in cui poterci riconoscere. Alcuni articoli raccontano di come l’attivismo possa avere un effetto positivo sugli ecoansiosi e i disperati climatici. Lo stesso Marco Aime in Fuori dal tunnel (2016) si stupiva di come il movimento No Tav abbia fatto nascere nuove communitas, forme alternative e spontanee di partecipazione pubblica. Lo stesso movimento Extinction Rebellion, seppure faccia leva su discorsi apocalittici (sotto la minaccia della sesta estinzione di massa) che possono suscitare forti reazioni emotive, si fonda su pratiche di gioco e rituali di cura. Le manifestazioni sono vistose, colorate e scenografiche, e sembrano esorcizzare le stesse tematiche funebri contro cui si milita. Le azioni di protesta civile, includendo necessariamente momenti di stress o di rischio personale, si dotano di specifici pratiche di supporto emotivo e psicologico. Pratiche affidate ai settori di Cultura Rigenerativa e Azione Non Violenta, che possono consistere in momenti di ascolto attivo, meditazioni collettive, prevenzione di fenomeni di burnout. Creare una “cultura rigenerativa” viene inteso come fondare le basi per una società resiliente, che possa condividere principi di cura ormai sempre più universali: non è un caso che la nascita – a cui ho assistito – del primo gruppo di Extinction Rebellion nella comunità spirituale di Findhorn in Scozia, abbia con sorpresa ritrovato le stesse pratiche interne alla comunità (meditazioni guidate, giochi di gruppo, decisioni prese con meccanismi di democrazia diretta e orizzontalità).

Queste spinte auto-poetiche, tipiche di quelle mobilitazioni a tutela del proprio ambiente a rischio (così come è a rischio l’identità della comunità locale) non sempre sono facili da sostenere. È il caso dei comitati locali contrari al Passante di Bologna, l’opera di allargamento dell’asse di autostrada e tangenziale che taglia a metà la città da più di cinquant’anni e che da almeno trenta è osteggiata da un ampio gruppo della popolazione. Nel corso della mia etnografia con i cittadini limitrofi alla tangenziale ho rintracciato segni di solastalgia: l’odore e bruciore del diesel, il rumore costante, la comparsa diffusa di malattie cardiovascolari e tumori hanno portato ad un clima di disperazione e rassegnazione forzata. Eppure sono comparse anche note di speranza, sinergie inaspettate con attivisti più giovani, risoluzioni delle proprie crisi di presenza tramite una militanza comune. Come mi ha detto una volta una No Passante rispetto alla loro “lotta stanca”: «Abbiamo dovuto studiare da zero tanto, tanto, tanto. E questo aiuta. Cioè la mia testa non funziona più, e va bene, però se non altro ti rende vivo: ti fa comprendere tante cose del mondo, preoccupazioni di tanti giovani, ti rende presente».

Secondo Han «alla base della depressione c’è una smodata autoreferenzialità». I riti invece, che similmente a De Martino sono ritenute «tecniche simboliche dell’accasamento», alleviano l’Io dal fardello del sé. Sempre più terapeutico dunque, per non cadere nel baratro del domani, sembra il riuscire a munirsi di nuovi valori condivisi, di nuovi rituali di cura. Riuscire a creare ancora delle communitas in cui stringersi e in cui potersi riconoscere come una struttura stabile, resiliente, adeguata al nostro ormai grande campanile di Marcellinara che, da un momento all’altro del nostro presente, ci sembra sul punto di poter crollare.

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Globale - 2021
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ha studiato Lettere Moderne e Antropologia Culturale all'Università di Bologna. Ha scritto per Parte del discorso e condotto Mezz'ora d'eco, un programma radiofonico di ecologia politica su RadioSpore. Si interessa del rapporto tra natura e cultura, in un’ottica di superamento dei loro confini, di attivismo ambientale, di poesia sociale.

Pubblicato:
07-09-2021
Ultima modifica:
07-09-2021
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