Provare una mossa del cavallo. Una prospettiva sulle nostre guerre - Singola | Storie di scenari e orizzonti

Provare una mossa del cavallo. Una prospettiva sulle nostre guerre

Le esperienze di un fotogiornalista che ha documentato le ferite della guerra in Siria e nel Donbass, alla sua maniera, con i suoi occhi e la sua prospettiva.

Intervista a Giorgio Bianchi
di Jacopo La Forgia
Giorgio Bianchi

è un fotogiornalista italiano. Ha raccontato storie su Siria, Ucraina, Burkina Faso, Vietnam, Myanmar, Nepal, India, Europa. Dal 2013 ha effettuato diversi viaggi in Ucraina, dove ha seguito da vicino la crisi – dalle proteste di Euromaidan fino allo scoppio del conflitto tra l'esercito governativo e i separatisti filo-russi.

Jacopo La Forgia

(1990) è fotografo e scrittore. Come fotografo ha realizzato lavori, oltre che in Italia, in Romania, India e Indonesia. È autore di Materia (Effequ, 2019) e coautore di Trilogia della catastrofe (Effequ, 2020). Vive a Venezia.

A febbraio il fotogiornalista Giorgio Bianchi ha pubblicato nella collana “Sguardi e visioni” di Mimesis il reportage fotografico e testuale Teatri di guerra contemporanei, resoconto delle sue esperienze in Ucraina e in Siria. Ho letto il libro e l’ho contattato per un'intervista; era in Ucraina, dove lavorava a «un documentario d’osservazione su Sasha, un minatore non vedente che lavora in una miniera di carbone artigianale del Donbass». Dopo essere tornato in Italia, Bianchi ha letto le mie domande, rispondendo in modo approfondito a ognuna di esse. Mi ha raccontato di come Alina abbia continuato a danzare, «nonostante le bombe, i blackout, il magazzino distrutto da un colpo di mortaio», e che cosa vuol per lui «colonizzare l’immaginario»; mi ha descritto il suo punto di vista sulla guerra in Siria e in Ucraina e mi ha parlato del perché i media hanno usato il termine “rivoluzione” invece di “colpo di stato” per descrivere gli eventi accaduti a Maidan nel 2014. E molte altre cose.



Jacopo La Forgia -
Vorrei partire da un concetto a cui fai riferimento nell’Introduzione (p. 7), accostandolo a ciò che racconti sulla guerra in Siria nel capitolo “Il lento ritorno alla vita” (pp. 101 e seguenti).

Nell’introduzione scrivi:

La possibilità di “colonizzare” l’immaginario altrui e di contribuire a definire l’immagine del mondo di un pubblico potenzialmente vastissimo implica, da parte dell’autore [del reportage fotografico], un enorme potere, da cui deriva una altrettanto grande responsabilità.

Scrivendo della tua esperienza in Siria cominciata nel 2016, racconti poi di aver lavorato a

storie che nessuno si era preso la briga di raccontare. Il messaggio che doveva essere mandato era che i civili siriani erano tutti in fuga dal loro Paese e che il governo era oramai privo di qualsiasi sostegno popolare.

Perché nel rapporto tra chi “crea” l’immagine e i fruitori, descritto nell’introduzione, deresponsabilizzi così tanto i secondi, arrivando a parlare di “colonizzazione” del loro immaginario?
Quale responsabilità hai sentito di avere durante il tuo lavoro sul conflitto siriano?

Giorgio Bianchi - La risposta a questa domanda avrebbe potuto tranquillamente occupare un capitolo dedicato del libro.
Ad essere sincero sono stato combattuto sull’opportunità o meno di approfondire il tema, ma alla fine ha prevalso la scelta di lasciare fuori la politica e le polemiche e di dare spazio soltanto alle riflessioni che riguardassero le emozioni.
La fotografia è uno dei linguaggi di elezione utilizzati con finalità propagandistiche e manipolatorie. Nella fotografia è più evidente che altrove il concetto di “frame” della notizia.
“Frame” è una parola inglese che significa “cornice”. Cornice di cosa?
Faccio un esempio. Immaginiamo di avere davanti a noi una persona rilassata su una sdraio, posta su un tappeto di erba tagliata all'inglese, che sorseggia un cocktail in una giornata bellissima; immaginiamo che di fianco a questa persona ci sia un cumulo di rifiuti. Il fotografo può scegliere di inquadrare soltanto l'uomo seduto sulla sdraio lasciando fuori dal “frame” tutto il resto; in questo modo trasmetterà un’impressione del tutto parziale della scena, inducendo il pubblico a ritenere, per esempio, che il soggetto ritratto sia molto fortunato. Oppure può fotografare soltanto la discarica, tralasciando l'uomo sdraiato a sorseggiare il cocktail, e far credere in questo modo a chi guarda l’immagine che quello rappresentato sia il posto peggiore del mondo. In realtà, per fare bene il suo lavoro, il fotografo dovrebbe fare un passo indietro e cercare di racchiudere entrambe le situazioni nell’inquadratura. Così riuscirebbe a restituire una narrazione abbastanza oggettiva; dico “abbastanza” perché poi Il fotografo dovrebbe anche indagare cosa c'è tutto intorno a quella situazione, magari provando a spiegare perché quell'uomo è seduto vicino a un mucchio di rifiuti. L’oggettività della fotografia è un concetto astratto.
Ecco, la nostra mente funziona esattamente così: al di là della realtà oggettiva, percepiamo il mondo solo per quello che rientra all'interno della nostra cornice. È ciò che i filosofi chiamano “visione del mondo” e che Wittgenstein ha definito “occhiali cognitivi” che ci mettiamo sul “naso”. Ecco, la grande “magia” degli stregoni della notizia, come li definiva Marcello Foa nel suo celebre libro, consiste proprio nella capacita di cambiare il nostro “frame” di riferimento, fino a convincerci che solo ciò che rientra nella cornice goda di una qualche certificazione oggettiva di veridicità.
Purtroppo non si tratta di un problema legato ad una maggiore o minore grado di responsabilizzazione del pubblico, quanto piuttosto di una questione sistemica riconducibile al regime monopolistico del mondo dell’informazione. Difatti l’unico modo per sfuggire alla trappola del “frame” è quella di avere a disposizione diverse cornici che rappresentino i diversi aspetti della medesima situazione.
Solo così lo spettatore avrà la possibilità di ricomporre quell’immagine complessa che rappresenta la realtà, e che spesso non è possibile restituire attraverso un unico angolo di inquadratura.

La manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse, svolge un ruolo importante in una società democratica; coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente il paese.

Queste sono le parole con cui inizia il libro Propaganda di Edward Louis Bernays, uno dei primi spin doctor della storia nonché uno dei tre padri delle Pubbliche Relazioni e tra i massimi sostenitori della propaganda moderna. Propaganda, attenzione, è un testo del 1928 ed è stato tradotto per la prima volta in italiano soltanto ottant'anni dopo.

Nel caso siriano, la propaganda di guerra che ha preceduto e accompagnato l’intervento straniero nel conflitto, ha creato un clima talmente tossico attorno alla figura del Presidente Assad, vittima di un vero e proprio processo di “reductio ad Hitlerum,” che nessun soggetto mainstream ha avuto il coraggio di presentare al proprio pubblico cornici alternative rispetto a quella imposta dal pensiero dominante.
L’operazione di avvelenamento preventivo del pozzo dell’informazione riguardo la Siria, ha fatto sì che gli operatori del settore siano partiti quasi tutti con un’idea preconcetta riguardo al legittimo governo siriano, che poi di fatto si è riverberata sul materiale prodotto.
Ricordo che il Presidente Assad era stato insignito della Legione d’onore nel 2001 e il 18 marzo 2010 mentre Giorgio Napolitano è in visita ufficiale a Damasco, prima volta per un Presidente della Repubblica italiano, ebbe a dire: «difficile non rimanere colpiti dalla bellezza del Paese e dall’ospitalità del suo popolo»; poi passa alle lodi per le politiche del presidente Bashar al-Assad: «Esprimo il mio apprezzamento per l’esempio di laicità e apertura che la Siria offre in Medioriente e per la tutela della libertà assicurate alle antiche comunità cristiane qui residenti».
L'uomo che oggi viene accusato di spargere il sangue del suo popolo in una terribile guerra civile è stato insignito pochi mesi prima dello scoppio del conflitto dell’onorificenza di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”. (Il titolo fu revocato dallo stesso Napolitano per indegnità il 28 settembre 2012, n.d.r.)
Il risultato di undici anni di “informazione” a senso unico, condotta in questo clima da caccia alle streghe, ha fatto sì che oggi nessuno abbia la più pallida idea di quale siano state le reali cause del conflitto e la composizione degli schieramenti sul campo.
La maggior parte delle persone sa che in Siria è in atto una guerra che ha letteralmente devastato il paese, ma se poi si va ad approfondire il livello di conoscenza, ci si rende subito conto che le informazioni sono del tutto approssimative.
Nessuno sa esattamente quali e quanti soggetti abbiano preso parte ad un conflitto che molti si ostinano ancora a definire “guerra civile”: sul campo, a fronteggiare i soldati del Syrian Arab Army (SAA) e gli alleati russi e iraniani (presenti sul territorio in maniera legale in base al diritto internazionale, perché invitati dal legittimo governo rappresentato all’ONU ad affiancare l’esercito), si contano combattenti provenienti da mezzo mondo spalleggiati da paesi quali Turchia, Arabia Saudita, Qatar, USA, Francia, Gran Bretagna, Israele solo per citare quelli che hanno svolto un ruolo più attivo.
Questo punto va chiarito una volta per tutte. In Siria si è svolta una guerra per procura.
I manifestanti che scesero in piazza nel 2011 furono quasi subito infiltrati da miliziani jihadisti armati e violenti che entrarono nel paese prevalentemente attraverso la Turchia.
Questi combattenti islamici trasformarono le manifestazioni di piazza in veri e propri scontri armati.
C’è una data simbolica che segna questo passaggio: è il 6 luglio 2011 ovvero il giorno in cui l’ambasciatore americano Ford si fece fotografare tra le fila dei ribelli armati di Hama.
Per anni i soldati del SAA sono stati dipinti dalla stampa mainstream come “massacratori del proprio popolo”. Ci è stato raccontato che l’esercito è stato lo strumento utilizzato dal governo per reprimere la spontanea richiesta di democrazia da parte della società civile siriana.
La realtà è che il SAA ha fatto quello che avrebbe fatto qualsiasi altro esercito occidentale se posto nelle medesime condizioni.
Abbiamo assistito alla repressione brutale da parte del governo francese delle manifestazioni dei gilet gialli.
Si contano alcuni morti e centinaia di feriti e stiamo parlando della “democraticissima” Francia.
Immaginiamo se quelle manifestazioni, in molti casi violente, ad un certo punto fossero state infiltrate da jihadisti armati e supportati da paesi stranieri che intendevano sovvertire le istituzioni francesi.
Supponiamo poi che queste milizie avessero iniziato a sparare sulle forze dell’ordine dando il via a scenari di guerriglia urbana in diverse città della Francia. A quel punto cosa avrebbe dovuto fare il governo francese?
Ecco, la stessa domanda se la pose il governo siriano quando nel 2011, sul proprio territorio, si verificò uno scenario analogo.
Nel mio caso comunque, la situazione è stata addirittura paradossale: appena rientrato dalla Siria al termine dell’ultima sessione di riprese di un documentario che stavamo girando per conto di RaiCinema, il foto editor di un importante settimanale italiano mi ha contattato manifestando la volontà di pubblicare le immagini che avevo realizzato in quel periodo; ci tengo a precisare che in quel momento quegli scatti risultavano essere un’esclusiva mondiale, in quanto ero l’unico “occidentale” ad aver avuto la possibilità di lavorare per diversi mesi in prima linea con le truppe regolari siriane.
La trattativa con il magazine non è andata in porto a fronte del mio rifiuto di cedere le foto senza un articolo a corredo scritto di mio pugno.
Stesso discorso con un altro gruppo editoriale.
L’aspetto ridicolo di tutta la faccenda, è che questo lavoro, di fatto inedito, è stato selezionato pochi giorni fa per concorrere alla fase finale di uno dei più prestigiosi premi internazionali di fotogiornalismo. La partecipazione è consentita solo per invito, ed io ad oggi non ho idea di come i selezionatori abbiano potuto visionare il mio lavoro visto che non è stato pubblicato da nessuna parte e io non ho avuto modo di sottoporlo ai selezionatori.

JLF - Credo che nella fotografia documentaristica, per rappresentare efficacemente un avvenimento storico è necessario partire da una vicenda personale. Che si tratti di un’emergenza sanitaria, del cambiamento climatico, della guerra, bisogna sempre mostrare come il contesto incida sulle esistenze private. In poche parole, c’è bisogno di un protagonista.
Tu sei molto bravo a raccontare storie personali.
Parliamo allora della guerra del Donbass, parliamo di Alina. Nel capitolo “Teatri di guerra” (pp. 51 e seguenti) scrivi:

La storia di Alina è una delle mie preferite, sia per l’umanità e la spontaneità emanate dalla sua protagonista, sia per l’incredibile contrasto tra il suo ambiente di lavoro e le trincee poco distanti.

Alina è una delle artiste del corpo di ballo del Teatro dell’Opera di Donetsk che, anche nei mesi peggiori del conflitto, non ha mai chiuso.
Nonostante le bombe, i blackout, il magazzino distrutto da un colpo di mortaio, le defezioni degli artisti e delle maestranze, il teatro ha continuato a funzionare facendo sempre il pieno di spettatori.
So bene – lo dici chiaramente – quanto è difficile descrivere il contrasto tra i due scenari, la guerra al fronte e la serenità di Alina. Quindi non ti chiederò di farlo.
Mi piacerebbe però che mi parlassi del ruolo che le narrazioni personali hanno nei contesti di guerra. Quali caratteristiche devono avere tali racconti? Cosa bisogna fare per evitare narrazioni parziali?

GB - La differenza sostanziale tra un progetto a lungo termine e un assegnato risiede proprio nel coinvolgimento emotivo. Ritengo sia veramente difficile portare avanti un lavoro di anni in un determinato contesto, senza una potente motivazione interiore a farlo.
In quest’ottica un long term project non è solo un lavoro di documentazione di fatti estranei alle vicende personali del reporter, ma può essere letto anche come una sorta di esplicitazione dell’emotività sviluppata dall’autore rispetto a quelle vicende.
Non è possibile realizzare diversi reportage fotografici, completare tre documentari e scrivere un libro senza avere alle spalle una mappa concettuale, sviluppata in anni di riflessioni maturate “a caldo” sul campo e “a freddo” una volta rientrati nel proprio contesto quotidiano.
Tutti i lavori che ho realizzato nel corso di questi anni sono il punto di arrivo di un percorso di maturazione interiore rispetto a quegli avvenimenti.
A mio modo di vedere l’unico modo per evitare “narrazioni parziali” è quello di utilizzare il maggior numero possibile di linguaggi espressivi per descrivere un determinato contesto.
Solo in questo modo è possibile agire sui diversi livelli delle storie e documentare entrambi i mondi, quello esterno all’autore e quello interno, che è venuto a modificarsi proprio a seguito dell’incontro con le vicende che si intende raccontare.
Questo perché a mio modo di vedere, l’unica verità trasmissibile è la sensazione dell’autore di fronte alle scene che riprende. Se si riesce a restituire allo spettatore quelle emozioni, allora sì, quella è la verità, la sua verità, ciò che è arrivato a toccare la sua anima.
Fatte queste premesse, mi sento di poter affermare che la funzione di un autore contemporaneo non dovrebbe esaurirsi nella realizzazione delle sole immagini, quanto piuttosto nel trasmettere un’atmosfera, ove con questo termine si dovrebbe intendere una trasposizione codificata delle sensazioni percepite in una determinata situazione.

JLF - Passiamo a una domanda di carattere meramente storico-politico. Il primo capitolo del libro si intitola “La mia Maidan” e tratta della tua esperienza a Kiev durante gli scontri del febbraio 2014 a Majdan Nezaležnosti (Piazza dell’Indipendenza).
Tra le altre cose, parli degli scontri a fuoco del 20 febbraio in cui persero la vita tra i 67 e i 100 manifestanti (fonti diverse hanno prodotto stime piuttosto varie):

Cosa è possibile dire dopo quei giorni? Chi aprì il fuoco contro i manifestanti? […] Furono i reparti speciali della polizia o qualcuno dalle retrovie, per creare un casus belli? Quello che posso dire sulla base della mia esperienza è che probabilmente sono vere entrambe le cose. La polizia in quei giorni aveva mantenuto il controllo della situazione con fermezza, spesso con violenza, ma sempre cercando di evitare inutili spargimenti di sangue, anche nelle situazioni in cui le provocazioni dei manifestanti erano sfociate in veri e propri atti di aggressione. Per quale motivo, a un certo punto, gli agenti avrebbero dovuto aprire il fuoco contro i manifestanti se non lo avevano fatto per settimane?

Molti di quelli che vidi cadere erano armati a loro volta e avevano iniziato ad aprire il fuoco contro la polizia (uno di loro aveva addirittura dei candelotti di dinamite in tasca).
Quello che penso è che quel giorno fu presa la decisione di alzare il livello dello scontro sparando contro le forze dell’ordine e che queste, a loro volta, avessero reagito tentando di abbattere coloro i quali avevano aperto il fuoco. In quelle circostanze si sono inseriti dei soggetti che hanno approfittato della situazione per far crescere il numero dei feriti e dei caduti sparando dalle retrovie.
È incontrovertibile che un gran numero di colpi fu esploso dall’hotel Ucraina e che gran parte di essi non fosse rivolta contro la polizia.
La storia di Maidan è molto più complessa di come è stata raccontata. Alle giuste proteste di piazza dei primi giorni si sono presto sostituite vere e proprie operazioni di guerriglia urbana, messe in atto da personale organizzato e ben addestrato con l’obiettivo di rovesciare il governo con la violenza.
Il titolo del capitolo, come ho riportato sopra, è “La mia Maidan”. Quali implicazioni ha quel “mia”?
Potresti approfondire ulteriormente l’affermazione che ho evidenziato in grassetto? Dove ha fallito chi ha raccontato Maidan? Cosa è stato semplificato? Cosa si sarebbe dovuto raccontare in modo più articolato?

GB - Il “mia” a cui ti riferisci, non è altro che l’estrema sintetizzazione dell’assoluta non presunzione di oggettività che anima il mio lavoro.
Quella che si vede dalle immagini è la Maidan così come l’ho vissuta io in prima persona, è quello che ho visto, quello che ho provato.
Non è la Verità, ma soltanto una delle infinite cornici all’interno delle quali si sarebbero potuti racchiudere quei fatti.
Mi chiedi cosa sia stato semplificato rispetto a quei fatti.
Nella narrazione per così dire “ufficiale” quell’evento viene generalmente classificato con il termine di “rivoluzione”; poiché alla fine del processo l’ordine statuale, così come quello sociale e economico, sono rimasti immutati, a mio modo di vedere sarebbe più corretto parlare di un “colpo di stato” condotto da soggetti stranieri, attraverso l’utilizzo sul campo di gruppi paramilitari di estrema destra facenti capo principalmente alle sigle di Pravy Sektor e Svoboda.
Il termine “rivoluzione” viene preferito al più calzante “colpo di stato” poiché pone immediatamente il pubblico in una disposizione d’animo favorevole rispetto ai rivoltosi, in quanto evoca un moto di popolo contro un soggetto oppressore.
Il termine "colpo di stato" invece riporta alla mente “quel tintinnar di sciabole” che poco ha a che vedere con il popolo ma molto di più con la geopolitica e i militari.
Per questo motivo i media rispetto a Maidan utilizzano sistematicamente il primo termine a discapito del secondo. Anche solo questo dettaglio denota la volontà di creare un frame favorevole ai rivoltosi e contrario al governo legittimo deposto a seguito di quell’operazione.
Queste affermazioni non le fa il Giorgio Bianchi fotoreporter, ma il Giorgio Bianchi analista e studioso di queste questioni.
Se i media volessero veramente informare, dovrebbero mettere in fila per il loro pubblico tutte quelle vicende che si sono svolte con modalità analoghe rispetto a Maidan: Romania, Jugoslavia, Cina, Lituania, Georgia, Kirghizistan, Turchia, Iran, Tunisia, Libia, Egitto, Siria, Hong Kong…
I manifestanti che danno vita alle cosiddette Rivoluzioni Colorate (o alle Primavere Arabe), per protestare contro governi ritenuti corrotti e/o autoritari, utilizzano metodi nonviolenti e di disobbedienza civile ispirati tra l'altro ai testi di Gene Sharp.
Per chiarire il concetto ricorrerò alla recensione che Giulietto Chiesa fece del libro di Sharp dal titolo:

Come si abbattono i "regimi" – tutto ciò che c’è da sapere sulle rivoluzioni colorate e le primavere varie

I dittatori sono tutti brutti e cattivi, e sono tutti gli altri: quelli che contrastano il Bene. Chi non li combatte con sufficiente convinzione è un alleato del Male.

Perché esistano i dittatori, da dove vengano, come si siano formati, se abbiano qualche legittimità, se siano stati un prodotto della storia, chi li ha portati al potere, se siano stati nostri amici e alleati, se siano capi di stato o di governo riconosciuti dalle Nazioni Unite, se abbiano quindi diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, se abbiano ragioni da rivendicare, di carattere storico o di emergenza, tutte queste sono questioni che non meritano di essere neppure prese in considerazione. Essi infatti sono “oppressori di popoli”. I quali popoli, ipso facto, vengono sussunti all’interno del nostro sistema di valori. Essi, cioè, hanno i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni. La storia, le diverse storie dei popoli vengono, come per incanto, cancellate. E, come passo successivo immediato, occorre immaginare per loro conto quale dovrà essere la forma di governo che essi devono avere.
Il secondo contenuto implicito è questo: loro, i dittatori, sono violenti; noi, i democratici, dobbiamo essere non violenti. Purché, naturalmente, il dittatore non riesca a mantenere soggetto il suo popolo. Nel caso ci riesca, poiché noi abbiamo deciso che può farlo solo grazie alla violenza, allora saremo autorizzati a esercitare a nostra volta la violenza. O, per meglio dire, saremo autorizzati a “ispirare” l’uso della violenza da parte degli oppressi contro il “dittatore” che, nel frattempo avremo già definito “sanguinario”, autore di “massacri indiscriminati”. E, giovandoci del differenziale a nostro favore, incluso quello mediatico, saremo riusciti a far diventare dominante la nostra narrazione degli eventi in tutto il mondo esterno.
Dunque, se vi sarà violenza, questa sarà interamente da attribuire alla “sacrosanta” reazione popolare alla “repressione” del dittatore. S’intende che questa “sacrosanta” reazione popolare sarà armata e organizzata mediante il differenziale di armi, munizioni, organizzazione, informazione, tecnologia. Ma saranno comunque i pacifici manifestanti per la libertà a usare le armi contro il sanguinario dittatore e i suoi scherani. E i morti saranno tutti, indistintamente pacifici cittadini, la popolazione civile innocente. Va da sé, inutile ricordarlo, che effettivamente la popolazione civile morirà in grande quantità. L’essenziale è che i racconti e i filmati assegnino la responsabilità degli eccidi esclusivamente al dittatore sanguinario e ai suoi scherani. Che magari sono effettivamente scherani e sanguinari, ma che avranno la malasorte di essere considerati gli unici criminali che agiscono sul terreno.
Sarà utile non dimenticare che, mentre noi – che stiamo sulla parte alta del differenziale, e che leggiamo le cronache dalle nostre alture – applaudiremo alla rivolta pacifica dei popoli oppressi presi di mira dai dittatori efferati, altri dittatori, proprio lì a fianco, insieme ai loro scherani sanguinari, saranno lasciati in piena tranquillità a opprimere i rispettivi popoli, godendo, nel fare ciò, del nostro più cordiale appoggio e sostegno. Questo dettaglio – lo ricordo di passaggio – viene sempre dimenticato dagli intellettuali amanti dei diritti umani che ci stanno intorno e a fianco. E, se glielo fai ricordare, si irritano accusandoti di cambiare discorso. Infatti uscire dalla narrazione del mainstream significa, per loro, “cambiare discorso”. E, a pensarci bene, per chi conosce solo la narrazione del mainstream, uscirne anche solo per un attimo significa cambiare discorso.
Ma procediamo oltre. A questo punto il paese astratto che stiamo considerando si trova già in piena guerra civile. Il movimento di protesta ha già ricevuto le necessarie istruzioni per l’uso per colpire i “talloni d’Achille” di quel determinato regime. Perché Gene Sharp sa perfettamente che ogni regime ha i suoi talloni d’Achille che, se bene individuati e colpiti, potranno farlo crollare di schianto. Da qualche parte, possibilmente in un paese confinante, si trova già un’avanguardia bene organizzata, bene collegata con l’interno, bene integrata con il sistema informativo occidentale, capace di usare al meglio i social networks (tutti sotto il controllo e la guida dei centri di analisi occidentali). Non sarà mica stato casuale se, all’inizio del 2011, poco dopo l’avvio della cosiddetta “primavera araba”, Obama e Hillary Clinton convocarono proprio i chief executive officers dei principali social network, di Google, Facebook, Yahoo and companies? Per la verità quest’ultima è una evoluzione tecnologica che Gene Sharp non include nel suo manuale. Il libro è stato scritto prima che essa diventasse utilizzabile su larga scala e, sotto questo profilo, appare datato.
Ma il manuale di Sharp ha un pregio indubbio, quello di aiutarci a capire bene i meccanismi tradizionali, quelli che sono stati usati negli ultimi decenni e che – si può essere certi – non usciranno di moda. Adesso in Siria, superata la fase dell’innesco della guerra civile, non c’è più nemmeno bisogno di fingere che, a combattere, siano solo i pacifici dimostranti armati oppositori del regime di Bashar el-Assad. Ora si dice apertamente che centinaia di agenti americani, sotto la guida di David Petraeus, attuale direttore della Cia, sono impegnati a reclutare, in Iraq, miliziani delle tribù di confine perché vadano a combattere in Siria. La stessa cosa avviene attraverso la frontiera turca, dove agiscono i contingenti militari provenienti da Bengasi di Libia, comandati dai leader fondamentalisti islamici che, con l’aiuto della Nato, hanno abbattuto il regime libico. E, dalla frontiera libanese, agiscono le bande del deputato di Beirut Jamal Jarrah, reclutatore di mercenari per conto dell’Arabia Saudita, uomo che fa da cerniera tra il pincipe Bandar, da un lato, e dall’altro – attraverso il nipote Ali Jarah – i servizi segreti israeliani.
Come dire: da un lato i dollari a camionate, dall’altro i migliori consiglieri militari e i più evoluti sistemi di intelligence di tutto il Medio Oriente. Si aggiungano le bande di commandos che già da mesi operano dentro i confini siriani, con l’obiettivo specifico di uccidere Bashar e i suoi più stretti collaboratori, di collocare bombe, di far saltare gli oleodotti.
Sarebbe evidente, il tutto, se i pubblici occidentali lo sapessero. Ma non lo sanno, perché la cronaca è scritta all’incontrario. E i “diritti umani” della popolazione siriana sono già stati avvolti nello stesso sudario in cui è imbavagliata ogni verità. Gli intellettuali occidentali, insieme ai giornalisti, e assieme a una certa dose omeopatica di pacifisti, credono di sapere. L’esistenza del sudario non riescono nemmeno a immaginarla. Sentenziano con l’aria di farci sapere che “a loro non la si fa”. Pensano di essere più intelligenti – avendo letto qualche romanzo giallo, o perfino avendolo scritto – dei professionisti che lavorano a tempo pieno per conto di un Potere che non sta giocando a carte.
Così, m’è venuto in mente, usando un altro gioco, di provare una mossa del cavallo. Cioè di andare a vedere, in retrospettiva, cosa avvenne, una ventina d’anni fa, in Lituania. Anche lassù, molto lontano dal Medio Oriente, ci fu un inizio di guerra civile, quando l’Unione Sovietica stava per crollare. I lituani volevano l’indipendenza, e avevano diritto di chiederla. C’era un genuino movimento popolare che si batteva per questo. Fu sufficiente un inizio. Poi tutto si concluse con la sconfitta dell’Impero del Male. Ci furono una ventina di morti a Vilnius, quando le truppe russe e il KGB occuparono la torre della televisione. L’accusa cadde su Gorbaciov, sui russi, i cattivi di turno, che furono accusati di avere sparato a sangue freddo sulla folla.
Quell’episodio è diventato il momento fondante della Repubblica indipendente di Lituania, ora uno dei 27 paesi dell’Unione Europea. Ma adesso sappiamo che tutta quella storia fu scritta da altre mani, ben diverse da quelle del “popolo lituano”.
Lo racconta ora Audrius Butkevičius, che divenne poi ministro della difesa della repubblica, e che, quel 15 gennaio 1991, organizzò la sparatoria.
Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti.
Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista “Obzor” e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano “Pensioner”. Sarà una fatica non inutile, perché coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.

«Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – dice Buzkiavicius, che allora aveva 31 anni – ma davanti alla storia io posso. Perché quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi».

Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.
Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò a Buzkiavicius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?
Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. È stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione. Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno. È un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”.
Questa operazione ha un solo “tallone d’Achille”. Che si potrebbe vedere, come fosse fosforescente, non appena si strappasse il tendaggio principale: l’assioma indiscutibile che “noi siamo la democrazia”. Perché capiremmo tutti che la ribellione “non violenta”, che suggerisce Sharp, può essere diretta contro i nostri oppressori “democratici”, che hanno trasformato la democrazia in una cerimonia manipolatoria e senza senso. Potremmo anche noi attuare tutti i suggerimenti di Sharp: dileggiare i funzionari del regime, fare marce, boicottare certi consumi, esercitare la non collaborazione generalizzata, attuare la disobbedienza civile.
In realtà, a ben pensarci, grazie professor Sharp, lo stiamo già facendo. Solo che non abbiamo, a sostenerci, i mercenari pagati con i denari dell’America. E possiamo anche noi citare, come fa Sharp, il deputato irlandese Charles Stewart Parnell (1846-1891): «Unitevi, rafforzate i deboli tra voi, organizzatevi in gruppi. E vincerete».
Solo che questa nostra democrazia è molto più subdola delle dittature. E dobbiamo sapere che, quando cominceremo ad abbatterla, per costruirne una vera, magari tornando alla nostra Costituzione, non avremo nessun aiuto dall’esterno.

JLF - Tornando alle storie personali, parliamo del capitolo “Spartaco e Liza”. Spartaco è un ex paracadutista dell’Esercito Italiano che nel 2014 decide di lasciare l’Italia per combattere in Ucraina. Scrivi:

Ritenendo di non aver più nulla da perdere, molto motivato dal punto di vista ideologico e forte della sua precedente preparazione militare […] Spartaco decide di sposare la causa autonomista e abbandonare definitivamente la sua vita nella profonda provincia bresciana che lo aveva demotivato e depresso. Spartaco è una delle pochissime persone che conosco che sia riuscito a far coincidere il suo io-ideale con l’io-reale. Lui sentiva di essere un soldato e la sua frustrazione scaturiva dal fatto che lo specchio non gli restituiva l’immagine che aveva di sé nella sua testa.

E più avanti:

Anche oggi che è un veterano, che ha imparato bene il russo e che quindi potrebbe aspirare a un posto di comando in un ufficio, Spartaco continua a operare nelle prime linee, nonostante il fisico provato e l’età che avanza. Le sue scelte sono certamente opinabili, ma la sua vicenda va oltre e in realtà ci dice molto del vuoto di valori e della frustrazione che la nostra società sta producendo.

Non bisogna cercare casi estremi per capire che la nostra è una società profondamente malata che sta producendo intere generazioni di giovani privi di punti di riferimento, di un ancoraggio valoriale e di una spinta ideologica. Tutto questo genera individui irrequieti, insoddisfatti, melanconici.
Nella serie fotografica racconti soprattutto la vita che Spartaco fa a Donetsk, quando non è al fronte («La routine […] prevede due settimane in trincea e due giorni a riposo»). Lo fotografi a casa con sua moglie Liza, «protagonista della storia al pari di Spartaco», una sarta del Teatro dell’Opera.

Il capitolo si conclude così:

Da parte mia posso dire senz’altro che è stato un privilegio raro poter documentare così in profondità la loro intimità, che mi ha sicuramente detto moltissimo di loro ma anche e soprattutto di me stesso e del mio mondo. La mia vicenda personale non è poi così dissimile da quella di Spartaco, del resto. La mia passata irrequietezza probabilmente aveva la stessa origine di quella che ha mosso Spartaco. È forse per questo motivo che per anni sono ritornato da loro a fotografare. Forse ogni volta che scavavo nelle loro vite trovavo un frammento delle mie motivazioni e delle mie ossessioni.

Vorrei approfondire due elementi.

– Il primo: la coincidenza tra io-reale e io-ideale. In che modo, secondo te, è possibile farli corrispondere? Perché la tua riflessione su questa tematica specificamente esistenziale emerge quando scrivi di una persona che combatte e che uccide?
– Il secondo elemento: il “frammento” di cui scrivi nella chiusa. Di cosa è fatto questo frammento? In cosa consistono le motivazioni e le ossessioni di cui parli?

GB - Nel momento stesso in cui emergono i processi interiori di una persona a noi estranea non ha senso soffermarsi sul giudizio di merito, non credo sia nostro compito.
Il giudizio di merito arriva a valle e comunque è quasi sempre è viziato dal punto di vista di chi lo redige, a sua volta condizionato dal pensiero dominante di quel particolare momento storico.
I partigiani sono eroi perché hanno vinto la guerra, altrimenti sarebbero stati processati e uccisi come terroristi e la loro immagine sarebbe stata tramandata come tale.
A me interessa l’uomo Spartaco e quanta parte della sua immagine di mondo e delle sue motivazioni possano essere paradigmatiche di una categoria o di una generazione.
È un’indagine che definirei di natura antropologica più che storica o filosofica.
Mi riferisco ad una persona “che combatte e uccide” perché in lui ho visto con estrema chiarezza la volontà di far coincidere l’io-reale con l’io-ideale, il giudizio morale sugli esiti di questo processo non spetta a me.
Domani qualcuno potrà dire che il mio lavoro è stato immorale al pari di quello di Spartaco, ma questo giudizio non avrà nulla a che vedere con le motivazioni che mi hanno spinto a portarlo avanti.
Il mio io-ideale è quello di un professionista che cerca nel suo piccolo di offrire al proprio pubblico un’angolatura dei fatti che vada a sbirciare al di là dal “frame” confezionato dalla narrazione mainstream.
Molti giudicheranno questo tentativo poco etico in quanto a loro dire offre una sponda a governi che la vulgata vuole oppressivi e autocratici. Ma io resto dell’opinione che i diritti vanno di pari passo ai rovesci e che quando si giudica una situazione bisognerebbe farlo senza le lenti neocoloniali di ciò che noi riteniamo giusto per altri popoli, perché la storia recente dovrebbe averci insegnato che dovunque abbiamo messo le mani abbiamo fatto peggio e il caso libico, quello afghano, quello siriano, quello ucraino e quello iracheno sono sempre lì a ricordarcelo.
Al pari di Spartaco, la Storia giudicherà il mio operato.
Di certo c’è che il mio lavoro è sempre stato onesto e coerente con la mia visione antimperialista.

JLF - A cosa stai lavorando attualmente? Quali direzioni sta prendendo il tuo lavoro?

GB - Al momento sto lavorando ad un documentario d’osservazione su Sasha, un minatore non vedente che lavora in una miniera di carbone artigianale del Donbass.
Tramite una raccolta fondi siamo riusciti a raggiungere la cifra necessaria per sottoporlo ad un intervento di trapianto di cornea che dovrebbe consentirgli di tornare a vedere da un occhio.
In questa fase abbiamo completato l’ultima operazione e attualmente Sasha vede al 20%, con ampi margini di miglioramento nei prossimi mesi.
Speriamo di riuscire a completare il progetto entro il 2021 e di poterlo proiettare in sala nel 2022.
Inoltre, nonostante il clima estremamente tossico, mi piacerebbe fare un lavoro sulla pandemia, poiché anche in questo caso ritengo che al pubblico sia stato offerto un punto di vista parziale fortemente condizionato dal frame dominante.
In questo caso reperire i fondi necessari per portare a termine il lavoro sarà ancora più complicato, così come assai difficile sarà trovare una chiave di lettura che permetta al lavoro di essere accettabile per il mercato.
La censura è odiosa, ma allo stesso tempo è un efficace stimolo per la creatività.

Hai letto:  Provare una mossa del cavallo. Una prospettiva sulle nostre guerre
Medio-oriente - 2021
Societá
Giorgio Bianchi

è un fotogiornalista italiano. Ha raccontato storie su Siria, Ucraina, Burkina Faso, Vietnam, Myanmar, Nepal, India, Europa. Dal 2013 ha effettuato diversi viaggi in Ucraina, dove ha seguito da vicino la crisi – dalle proteste di Euromaidan fino allo scoppio del conflitto tra l'esercito governativo e i separatisti filo-russi.

Jacopo La Forgia

(1990) è fotografo e scrittore. Come fotografo ha realizzato lavori, oltre che in Italia, in Romania, India e Indonesia. È autore di Materia (Effequ, 2019) e coautore di Trilogia della catastrofe (Effequ, 2020). Vive a Venezia.

Pubblicato:
22-03-2021
Ultima modifica:
22-03-2021
;