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Rete oscura

Parler, Gab e il dopo Twitter: la polarizzazione politica in rete tra socially correct e dark web.

Aldo Torchiaro

è giornalista ed esperto di comunicazione pubblica. Ricerca sui temi legati al Contemporary Humanism e in particolare la politolinguistica. È autore del saggio L'inganno felice (Cooper, 2020) sulle dinamiche di polarizzazione della Rete. Vive a Roma.

La politica nell’era della mediopolitica [1] è quella per cui non esiste più alcuno spazio politico che non preveda l’interessenza dell’esposizione pubblica immediata e ipermediatizzata. Immediata [2] nel duplice senso di non filtrata, priva di mediazione; e di subitanea, istantaneamente prodotta. Ipermediatizzata perché la propagazione del messaggio viene moltiplicata oltre le intenzioni, in un flusso incontenibile e imprevedibile (perché disintermediato) di interazioni con il contenuto originario. E la mediopolitica immediata non può svolgere la propria azione al di fuori della infosfera costituita dall’ecosistema digitale planetario dei dieci principali social network.

A quelli che riguardano solo la Cina (Wechat, Weibo e Renren) e quelli diffusi in Russia (VKontakte, “in contatto” e Odnoklassniki, “compagni di classe”) si contrappongono Facebook, con i suoi quattro miliardi di profili attivi, e Twitter con i suoi 350 milioni di account aperti. Il primo vanta un livello partecipativo più diffuso, il secondo più “alto”: gli opinion leader, la politica, il giornalismo, le star sono tutte su Twitter. Diventata a tutti gli effetti agenzia di stampa, Twitter raccoglie il 23% [3] della popolazione quotidianamente connessa alla Rete. E soprattutto, il 23% giusto: quello fatto dai grandi decisori pubblici e privati. Che non di rado usano la piattaforma proprio per interscambiare dichiarazioni di solidarietà o accuse, per proporre alleanze o minacciare guerre, come fu nel caso dei tweet tra l’allora presidente americano Trump e Kim Jong-Un.

Donald Trump è un veterano di Twitter: ha mosso i primi passi sulla piattaforma di microblogging nel luglio 2010 e da allora ha twittato 59349 volte. Ma oggi non twitta più. O comunque non più come @realDonaldTrump: il suo profilo è stato ufficialmente chiuso il 9 gennaio in conseguenza delle proteste violente di Capitol Hill, delle quali il quarantacinquesimo presidente americano è considerato l’ispiratore. Il social network di Jack Dorsey ha soppresso il profilo personale di Trump (rimanendo attivo quello di @POTUS, il profilo istituzionale che Twitter mette a disposizione del Presidente come personalità pubblica) prendendo quella che il suo fondatore ha definito:

“Una decisione molto difficile e che crea un precedente pericoloso, ma l’unica che potevamo prendere”.

In questo video CNBC dà conto della dolorosa presa di posizione del gigante dei micro-testi. Non si dà invece conto delle proteste che ne sono seguite: perché nello specifico degli utenti della Rete si è trattato di auto-shutdown: molti cittadini americani, ma non solo, hanno deciso di riconsegnare le chiavi del profilo al padrone di casa – l’uccellino blu – per trasformare i loro cinguettii in qualcosa di diverso. Migrando altrove. I media americani hanno dato conto delle prese di posizione europee, spesso più decise nel condannare la “censura” anche nei confronti di un avversario politico. Anche se – come ha scoperto Annie Veinshitien del San Francisco Chronicle – Twitter ha solo messo in lockdown il profilo di Trump, e non lo ha cancellato definitivamente, l’effetto-scomparsa è stato clamoroso. Ha segnato un momento critico, un avvertimento per tutti, un punto di non ritorno: Twitter è diventato un editore: seleziona i contenuti che pubblica anche se con larghi margini e in forma del tutto automatizzata. Il Presidente del Brasile, Bolsonaro, ha chiamato Trump per esprimergli solidarietà – come del resto ha fatto il dissidente russo Navalny.

Non entreremo qui nelle more del dibattito che ne è seguito; i liberali sostengono che l’azienda Twitter è privata e Dorsey fa quel che vuole, se i suoi legali gli consigliano di cancellare un contenuto che lo espone al rischio di un coinvolgimento giudiziario quale l’istigazione a delinquere. Altri asseriscono che il servizio di comunicazione – una volta accettate reciprocamente le regole – è di fatto un servizio pubblico, che non si può cancellare unilateralmente. E che se si tratta di messaggi, cioè al massimo di un reato di opinione, si può e si deve rispondere senza bannare ma con molti più tweet che indicheranno la strada giusta. Di fatto però, è iniziato un processo inedito: i fan di Trump, che in America chiamano MAGA people (dal claim Make America Great Again) identificano Twitter come una espressione mediatica Dem, e hanno iniziato ad abbandonarlo. Poi il 12 gennaio è stato il quartier generale di Twitter a prendere l’iniziativa e a far fuori 70.000 profili che sostenevano le idee di Qanon (la rete cospirazionista legata a Steve Bannon). Ma chi lascia Twitter, dove va?

Parler [4] e Gab [5] sono due delle piattaforme a bassa moderazione dove prolificano gli estremisti, ma anche su Twitch e nelle chat dei gamers si moltiplicano gli appelli a prendere le armi, negli Stati Uniti ma non solo. “Non avete mai sentito parlare di Parler?” – si chiede nel suo popolarissimo blog la giornalista Rachel Epstein – “Bene, non siete i soli. Perché non molti, al di fuori della cerchia degli estremisti di destra, conoscevano Parler prima che ne parlasse Trump”.

La constatazione ci pone davanti a un primo paradosso, ontologico: il social network funziona come Rete socializzante, come può porsi l’obiettivo di separare, disgregare, dissociare? Se la Rete sottende alla massima conoscenza disponibile, aperta, gratuita, trasversale, ed è – come attestavamo all’inizio, ipermediatizzata – come è possibile che vi sia un social network esoterico, cioè diffuso solo in un inner circle e conosciuto solo dagli iniziati, che ne condividono codici, simboli e rituali? Siamo costretti a fare i conti con la rinnegazione funzionale dell’aggregazione in network, con un meccanismo che tende a separare, distinguere e distanziare gli utenti e dunque le persone, anziché aggregarli.

L’assunto per il quale ben pochi conoscevano Parler, a dispetto del fatto che il social network conti già su 2,8 milioni di utenti attivi, è assai eloquente di quali e quanti “angoli ciechi” nasconda la Rete. Gli iscritti non sono tanti quanti ne possono vantare i grandi social media, ma neanche così pochi da poter passare del tutto sotto silenzio. Anche perché quasi tre milioni di utenti attivi ogni giorno significa un numero elevatissimo di interazioni, conversazioni, attività, pubblicazioni, stimabili in settanta milioni quotidiane. Che tale universo – legato ad ambienti paramilitari, ultraconservatori, evangelici soprattutto degli Stati del MidWest e del Sud – sia rimasto così a lungo fuori dai radar ci obbliga ad una seconda deduzione. Escatologica. Gli utenti che si preoccupano del futuro nella stessa maniera, si comportano nel quotidiano assimilando la loro prassi a quella militare. Agiscono assumendo codici gerarchici, condividono una condizione di idem sentire orientato verso il rovesciamento dello status quo. La segretezza della corrispondenza, il cieco rispetto degli ordini, l’addestramento alla marcia, il possesso di armi da fuoco fanno parte del processo di “ri-evoluzione” che incita l’utente di Parler ad uscire dalla Rete e a farsi combat group operativo. Mettendo da parte le tastiere.

Ed è su questa piattaforma che QAnon, organizzazione cospirazionista che la Cia monitora con preoccupazione, permette ai propri militanti di proliferare. Si tratta di un movimento dall’origine oscura, che in parte ricalca teorie già note in Italia dal secondo decennio del secolo: una cyber-setta di attivisti apparentemente senza leader, senza sedi, senza altro riferimento al di là della Rete che si ribellano contro le élites, contro i vaccini, contro il sistema dei partiti tradizionali, predicando che ciascun individuo si equivale in forza della sua capacità di esercitare il diritto di cittadinanza attraverso la documentazione in live stream di quanto avviene nei palazzi del potere di Washington, e la libertà per ciascuno di portare le armi.

L’idea di “aprire” il Parlamento ostile a Trump è stata predicata sui social per settimane, prima di essere messa in atto. Vediamo però su quali social: le manifestazioni culminate con l’attacco al Campidoglio americano sono state orchestrate molto più su Parler che non su Twitter e Facebook. La reazione dei social media è stata d’altronde antitetica: esiziale per le piattaforme di Dorsey e di Zuckerberg, pacifica per chi sta nella cabina di regìa di Parler. Una tolleranza passata tutt’altro che inosservata e che potrebbe costare cara. Parler è stato infatti sospeso – ed è anche questa una prima volta – dagli store di Apple e di Google Play. La decisione di Amazon, Apple e Google di tagliare l'accesso del social network ai loro server è avvenuta «a causa della sua incapacità di moderare i messaggi che incitano alla violenza». «Abbiamo sempre sostenuto che i diversi punti di vista dovessero essere rappresentati sull'App Store, ma non c'è spazio sulla nostra piattaforma per la violenza e l'attività illegale», afferma Apple. «Parler non ha preso le misure adeguate per affrontare il proliferare di queste minacce alla sicurezza dei cittadini».

Alla testa del social media ribelle c’è una scatola cinese che ha visto passare le redini di mano in mano nei 26 mesi di vita di Parler. Nata nel 2018, ha subìto più riassetti proprietari in pochi mesi che Twitter in tredici anni. Oggi è in piena fase espansiva. Ha cambiato proprietà nel giugno 2020 e dei nuovi titolari si sa poco. Dan Bongino, di origini italiane, è il nuovo Ceo, ma la lista completa degli investitori non è stata resa pubblica. Sono state provate numerose interazioni con l’agenzia russa di disinformazione Internet Research Agency, che d’altronde non è estranea a casi documentati di hacking nei confronti di siti istituzionali americani, ma anche europei.

Un rally pro-Trump, 2020.

Un rally pro-Trump, 2020.

E poi c’è Gab. Nata nel 2016 come piattaforma di micro-blogging per la tutela della libertà di parola, nasconde dietro a questa nobile causa l’ombrello che consente a sette suprematiste e a formazioni neonaziste di mantenere le comunicazioni al riparo della legge. Il social network ha suscitato l'attenzione pubblica quando, in seguito alla sparatoria alla sinagoga di Pittsburgh nell'ottobre 2018, si è scoperto che l'unico autore dell'attacco, Robert Gregory Bowers, aveva pubblicato un messaggio su Gab con intenzioni violente. Dopo la sparatoria, Gab è andato per un breve periodo offline: il suo stesso provider di hosting gli ha negato il servizio, temendo di essere indagato per complicità in attività con finalità eversive. Ci sono state inchieste di giornalisti investigativi che hanno seguito l’aurea massima “Follow the money” per provare a capire chi c’è dietro. Il sito nel 2017 ha raccolto cinquanta milioni di dollari grazie ad operazioni di crowdfunding rimaste oscure, perché parzialmente anonime. Per un servizio che si propone come emulazione riduttiva di Twitter, dal minor controllo sulla qualità dei testi e per la libera promozione delle fake news, una cifra spropositata, incongruente.

La Rete è dunque ad un bivio esistenziale. I servizi, le piattaforme, le app di messaging e microblogging devono scegliere la direzione da prendere. Cresce da un lato la consapevolezza di costituire un servizio pubblico e di dover fare i conti con le normative, con le regole e con le prassi di comunità nazionali che peraltro, nella dimensione globale del network, devono interfacciarsi con le regole della multilateralità. Cresce dall’altro lato la proclamazione della preminenza del libero arbitrio della proprietà privata e il richiamo all’anarco-libertarismo e dell’anarco-capitalismo, per i quali si richiama il lavoro di Robert Nozick. Per i sostenitori delle tesi di Nozick, sempre più popolari in Rete, ogni individuo è per natura titolare di diritti che precedono il diritto positivo: il diritto alla vita, alla proprietà e all’autodeterminazione. Una società veramente libera è quella in cui questi diritti sono supremi ed inviolabili, e l’unico potere legittimo è quello che può tutelarli.

Mentre i proprietari delle piattaforme di social media più usate devono fare i conti con le richieste, da parte dell'Unione Europea e del congresso americano, di stabilire un protocollo di public policy sempre più stretto (rispettare le sensibilità, segnalare i post inopportuni, contrastare l’hate speech, riconoscere e inficiare le fake news, tutelare la privacy, riconoscere i diritti d’autore, etc.) i propugnatori della Rete anarchica costruiscono piccoli imperi. Come i funghi, crescono nell’ombra, nutrendosi in modo parassitario e producendo spore non di rado velenose.

Mark Zuckerberg [6] e Jack Dorsey – rispettivamente a capo di Facebook e Twitter – sono comparsi in audizione al Congresso Usa di Washington l’ultima volta lo scorso 17 novembre. Prima di allora erano stati convocati altre due volte dalla stessa Camera americana, una volta alla Casa Bianca con Obama, una volta al Parlamento Europeo a Bruxelles e infine a Londra, per riferire alla House of Lords. Un percorso fatto di interlocuzioni frequenti, disponibilità dei dati, fiducia reciproca tra big del web e grandi istituzioni nazionali e sovranazionali e culminato in una rinnovata attenzione verso la cybersecurity e la lotta alle fake news. Come leggiamo sul blog specializzato “Guerre di Rete”:

“Dopo una serie di incidenti informatici anche pesanti (ricordate il TwitterHacked con i profili di Biden e Musk che promuovevano scam?), il social dei tweet ha chiamato i rinforzi. E che rinforzi: Peiter Zatko, noto come Mudge, già componente del mitologico gruppo hacker Cult of the Dead Cow, già al Darpa, a Google e infine a Stripe. Zatko sarà il capo della sicurezza con un mandato molto ampio che include anche la platform integrity (la lotta ad abusi e manipolazioni della piattaforma)”

Una scelta di investimento che la dice lunga sull’orientamento “politico” di Twitter. Che non è sola: a dire la verità nessuno poteva aspettarsi da parte dell’industry dei social network una risposta così coesa e allineata da rivelare la trama di un accordo condiviso: a cavallo dell’8 e 9 gennaio, nell’arco di 24 ore, Twitter ha cancellato il profilo di Trump, Facebook glielo ha sospeso, YouTube ha reso inaccessibili i suoi video. Lui non si è dato per vinto e ha detto: “sposto la mia comunicazione su Parler”. In 12 ore, a quel punto, Apple e Google hanno precluso a Parler gli accessi. Grandi manovre realizzate per la prima volta in perfetta sintonia da brand abitualmente contrapposti.

 

I software di analisi conversazionali monitorano, ma l’IA fatica a penetrare tutti i codici, i registri, gli slang che permeano la Rete. Quando due adolescenti si incontrano su Twich [7] - la piattaforma live streaming più diffusa al mondo – per giocare simultaneamente a distanza, l’interazione vocale viene captata e trascritta con grande difficoltà. Figurarsi interpretarla in modo tale da agire tempestivamente. Diverse sparatorie tra gang ed alcuni attentati nelle scuole americane sono state premeditate e discusse sulla piattaforma di Twich, ma nell’overflow delle informazioni (9,24 milioni di streamer attivi) e con la loro particolare declinazione, nessuno è mai riuscito ad intervenire. Si deve così ammettere che la Rete costituisca, nei suoi abissi più profondi, una realtà difficilissima da esplorare compiutamente. Il direttore dell'istituto di informatica e telematica CNR di Pisa, Domenico Laforenza, ha ammesso che non esistono metriche e tecnologie per misurare l'effettiva ampiezza del Web sommerso. Si tratta di una Rete dentro la Rete in cui gli utenti, coperti da anonimato, partecipano a gruppi chat proibiti che vanno dalle sette religiose al fanatismo razziale, dall’estremismo islamico alla pedopornografia, noncuranti gli uni degli altri. O meglio: realizzando nell’insieme quella gigantesca contraddizione per la quale i sostenitori di QAnon, che stigmatizzano l’esistenza di una rete di pedofili al potere, ne sono strettamente complici, contribuendo al traffico digitale della medesima darknet.


Le darknet più comuni sono TorI2P e Freenet. L'accesso a queste reti avviene tramite software particolari che fanno da ponte tra Internet e la darknet. Uno dei più famosi è Tor che, oltre a fornire accesso all'omonima rete, garantisce l'anonimato all'utente, permettendogli di navigare anonimamente anche sul normale World Wide Web da uno dei nodi della rete Tor. Le darknet sono usate, in alcuni casi, per attività illegali: famoso è il caso di Silk Road, un sito di commercio elettronico sulla rete Tor che effettuava attività criminali e che mette insieme chi vende armi ai suprematismi bianchi e chi filmati pedopornografici. Nel dibattito che ha fatto seguito al repulisti di Twitter e Facebook dei sostenitori di Qanon, si è fatta valere la voce di intellettuali che hanno segnalato una criticità: stante la polarizzazione crescente, che sembra essere una dinamica perversa e ineluttabile delle conversazioni sui social network, non conviene lasciare gli account estremisti in un terreno solido e leggibile, piuttosto che regalare loro l’anonimato della Rete coperta? Altri rispondono: marginalizziamo, silenziamo. Dai grandi numeri di Facebook si passa ai piccoli numeri di Parler, da quelli ai pochi adepti che si addentreranno fino al Dark web ridurremo ancora e di molto l’impatto numerico dei partecipanti, disperdendoli.

 

Rimane che una campagna di educazione civica digitale andrebbe fatta, ed è una sfida che coglie impreparate le grandi agenzie sovranazionali. Di regole per la Rete, per scongiurare la polarizzazione e contrastare l’hate speech non si è ancora capito se deve occuparsi l’Unione per le Telecomunicazioni a Ginevra (2 summit sull’argomento: nel 1988 e nel 2012), l’Unesco a Parigi o direttamente il Palazzo di Vetro a New York. Nell’incertezza, non si muove nessuno.


E da noi? In Italia c'è chi propone formule di identificazione digitale inequivocabili per accedere agli aggregatori di network. Diverse proposte di legge giacenti in Parlamento mirano a consentire l’apertura di profili sui social network solo a chi si registra fornendo al gestore la copia di un documento di identità ufficiale. Promuovendo così una utenza verificata con un rango superiore all’utenza anonima, la stessa dinamica che distingue una Pec da una qualsiasi casella e-mail. Ecco che il socially correct si scontra con lo spirito anarco-libertario della Rete. E riaffiorano i vulnus della legislazione in materia, per un settore – quello dei giganti del web – a cui l’Unione Europea non riesce nemmeno a dare una tassazione stabile. Dove hanno sede legalmente i social network? A quali leggi devono sottostare? Quali intese presiedono la capacità delle piattaforme di stabilire contratti commerciali e realizzare profitti in Italia?

Su tutto, si fa stringente un interrogativo più a monte. Andiamo verso una Rete duale, nella quale coesisteranno due emisferi, uno legalizzato e uno corsaro, prossimo al deep web [8]? Legalisti contro sregolati? Certamente vale, alla luce della constatazione del dato di realtà, l’avvertimento di chi segnala la necessità di mettere mano a uno Statuto universale della Rete. Ne parlava un giurista preveggente come Stefano Rodotà quindici anni fa. Adesso la questione si fa urgente.


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Note

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[1] Si legga sull’argomento Giovanni Sartori, Homo Videns, Laterza, Bari 1997.
[2] Cfr. Francesco Rutelli, Contro gli Immediati, La nave di Teseo, Milano 2017.
[3] Per le statistiche aggiornate mi sono riferito a questo sito.
[4] Si legga la voce Wikipedia, ricca di riferimenti bibliogr­­afici.
[5] Si legga di nuovo Wikipedia.
[6] Per una biografia sintetica e obiettiva, si veda di nuovo Wikipedia.
[7] Si veda l’interessante confronto tra Facebook, YouTube e Twitch nella policy di streaming delle violenze a Capitol Hill.
[8] Per una definizione del Dark web e la distinzione tra Deep web e Dark web si veda di nuovo Wikipedia.

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Aldo Torchiaro

è giornalista ed esperto di comunicazione pubblica. Ricerca sui temi legati al Contemporary Humanism e in particolare la politolinguistica. È autore del saggio L'inganno felice (Cooper, 2020) sulle dinamiche di polarizzazione della Rete. Vive a Roma.

Pubblicato:
20-01-2021
Ultima modifica:
19-01-2021
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