Il libro come foresta - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Contadini in combattimento, Rutland Psalter, 1260 circa
Contadini in combattimento, Rutland Psalter, 1260 circa

Il libro come foresta

Dagli intrecci vegetali agli alberi della memoria.

Contadini in combattimento, Rutland Psalter, 1260 circa
Giorgiomaria Cornelio

(1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”edizioni volatili”, e redattore di “nazione indiana”. Ha co-diretto la “trilogia dei viandanti” (2016-2020). Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”, “Il tascabile” e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore) e La specie storta (Tlon edizioni).

I

«Questo strano regno ornamentale, luogo d'elezione della metamorfosi, ha suscitato tutta una vegetazione e una fauna di ibridi, soggetti alle leggi di un mondo che non è il nostro.» (Henri Focillon, Vita delle forme)

 

Nel Medioevo fantastico, Jurgis Baltrušaitis ha tracciato un atlante delle migrazioni degli stili e delle forme originariamente appartenenti alle culture orientali e all'antichità classica, indagando così —attraverso una serie di genealogie arborescenti— la sopravvivenza, ricomparsa e ibridazione di questi motivi all'interno dell'arte gotica.

L'influenza islamica sulle espressioni artistiche dell'Europa tardomedievale è ampiamente riconosciuta. Nel saggio, Baltrušaitis illustra come —tra il XIII secolo e il XIV secolo—una molteplicità di intrecci sia proliferata all'interno dei manoscritti, in particolare nei margini, dove le forme islamiche si innestavano sulle decorazioni gotiche:

Non si tratta più di semplici trecce, bensì di dedali costruiti con una sapiente distribuzione di angoli e di curve. A volte le pieghe si rompono e la treccia si ricompone per mezzo di zig-zag, di linee variamente spezzate, altre volte invece si sovraccaricano di nodi innestati dall'esterno. [...] Modificando gli agganci interni di una stessa trama, è possibile scoprirvi un numero incalcolabile di figure: poligoni e poliboli si incastrano, si incatenano e si rinnovano all'infinito all'interno di un sistema fisso.

La decorazione della pagina produce una tortuosa mescolanza di motivi ripetibili: concatenazioni cariche di mistero, apparentate all'arabesco, o ai tappeti orientali decorati con merletti. Anche la vegetazione si espande ai margini, annodando insieme stili ed epoche diverse. Da questo punto di vista, un motivo fondamentale è la mezza-foglia rūmī, notevolmente diffusa nella storia delle decorazioni islamiche, e che —a partire dal XIII secolo— diviene un elemento ricorrente anche nei manoscritti europei.

L'accostamento tra rūmī e decorazioni vegetali gotiche forsenna le convenzioni figurative, che si aprono a una commistione di tendenze. Come insegna Baltrušaitis: «Per un certo tempo, il rūmī è la pianta che si arrampica sulla pergamena come su un muro, afferrandosi ad asperità e fessure impercettibili. La foglia si allunga all'infinito, trabocca su tutto il margine [...]. Foglie vive crescono su mezze-foglie stilizzate. Il risultato sono rami ibridi, coltivati in due climi e in due mondi».

Il rūmī costituisce uno dei punti di partenza di un ulteriore fenomeno ibrido, ovvero le decorazioni zoomorfe. Questo motivo, anch'esso già presente nella cultura islamica, trasforma gli intrecci in efflorescenze mostruose, in innesti sempre più spinti nella loro astrazione: tralci che diventano improvvisamente code, teste d'asino o di pesce che sorgono su rami attorcigliati, divagazioni rettiliformi tra le più disparate, saldate tra loro a formare una fauna fantastica. Siamo di fronte a delle vere e proprie ubriacature decorative, ora molli ora sottilmente appuntite, che restituiscono all'osservatore l'immagine di un mondo fatto di forze intricate, dissomiglianti, ma in cui tutto può essere letto come un'allegoria composita. «Una specie di febbre» direbbe Henri Focillon «preme e moltiplica le figure; uno strano genio della complicazione aggroviglia, rigira, decompone e ricompone il loro labirinto. La loro stessa immobilità balena di metamorfosi» (La vita delle forme).

Neppure la specie umana è esclusa: teste e torsi di ogni forma e numero si uniscono ai tralci, saltellano, volteggiano, esibendosi in cacce o danze che suscitano oggi una sorta di stupore invertebrato. La vita dei margini si rivela così fatta di una vasta atletica della mescolanza: nodi e trame, corpi ambigui, degenerazioni, alleanze impreviste, sempre sul punto di disfarsi, di contraddirsi, di formare nuovi rapporti, di divenire altro. Se torniamo a osservarle al di là dell'inciampo del grottesco, queste vite ibride - promesse dei mostri - disattendono ogni furia meramente classificatoria, fanno cadere l'umano nell'impasto promiscuo del mondo ("caduta" è proprio la sorte dell'uomo dopo la cacciata dal giardino dell'Eden: regio dissimilitudinis).

Irradiando un superamento del concetto di identità esclusiva, le vite dei margini mostrano oggi la vigilia di un corpo come orizzonte metamorfico.  Ma non solo... Trattenuta nella fitta foresta dei manoscritti, insieme agli umori di chi un tempo li ha toccati e baciati, serpeggia l'idea di un'attenzione non semplicemente fissata sul testo, ma devota all'inseguimento delle figure, alla loro potenza destabilizzatrice, capace cioè di denaturare il tempo, di farlo smottare su se stesso in una moltitudine di nessi, e di fare della pagina un parto di forme: celebrazione e insieme monito verso il potere dell'immaginazione, e verso la forza impregnante delle immagini.  «L'immaginazione» scrive Michael Camille in Image on the edge, «non era solo intesa come una facoltà cognitiva alloggiata nella parte anteriore del cervello, più vicina agli occhi - quindi strettamente collegata alla visione, ma una forza che poteva effettivamente creare forme», e dunque persino impregnare di mostruosità la donna che si fosse spinta a pensare cose orrende durante la sua gravidanza.[1]

Rutland Psalter, 1260 circa

Rutland Psalter, 1260 circa

A tal proposito, Camille - come già Thomasset e Jacquart prima di lui - fa riferimento alle teorie di Witelo, filosofo polacco vissuto nel XIII secolo, che nel De primaria causa penitentie et de natura demonum rivolge un'articolata disamina attorno ai fenomeni demoniaci, interrogandosi sulla loro natura, sulla capacità di riprodursi, e sulle modalità in cui si danno alla percezione.  Il più delle volte invisibili ad occhio nudo, i demoni

sono percepiti dalla phantasia, la facoltà che, posta nelle parti anteriori del cervello, cattura e conserva le immagini. Come spiegare allora che queste forme immaginate, ovverosia quelle impresse nel cervello, possono dare un notevole piacere al senso del tatto e condurre all'atto sessuale? Nella motivazione addotta da Witelo, ci imbattiamo ancora una volta nell'importanza attribuita dagli studiosi medievali all'immaginazione: essa "opera in larga misura durante l'atto, e gli spiriti, mossi dalla forma immaginata, corrono improvvisamente per tutto il corpo per favorire il coito". (Sexuality and Medicine in the Middle Ages)

Se l'immaginazione può consentire l'accoppiamento tra demoni ed esseri umani, ne consegue che lo statuto delle immagini non è innocuo. Le immagini agiscono, ci legano a loro. Imprimono il loro sigillo sulle membra. Disordinano la mente, oppure la soccorrono. Talvolta formano sistemi: e allora diventano scale, torri, ruote combinatorie. File di alberi in fiore, piantati nella nostra memoria.

L'albero di Jesse, Capuchins’ Bible, 1180 circa

L'albero di Jesse, Capuchins’ Bible, 1180 circa

 

II

Et quoniam imaginatio iuvat intelligentiam, ideo quae ex multis pauca collegi in imaginaria quadam arbore [...] ordinavi atque disposui. (Bonaventura da Bagnoregio, Lignum vitae)

 

Tra le città "invisibili" descritte da Italo Calvino, ve ne è una consacrata alla memoria. Zora -questo il nome - non si distingue per particolari caratteristiche, se non quella di fissarsi indelebilmente nella mente di chi l'ha vista. La successione delle sue vie e dei suoi luoghi forma un perfetto congegno mnemonico. Racconta Marco Polo all'imperatore Kublai Khan:

Questa città che non si cancella dalla mente è come un’armatura o reticolo nelle cui caselle ognuno può disporre le cose che vuole ricordare: nomi di uomini illustri, virtù, numeri, classificazioni vegetali e minerali, date di battaglie, costellazioni, parti del discorso. Tra ogni nozione e ogni punto dell’itinerario potrà stabilire un nesso d’affinità o di contrasto che serva da richiamo istantaneo alla memoria.

Eppure, inutili si rivelano gli sforzi di Marco Polo di visitare la città: intrappolata nella sua memorabile immobilità, Zora «languì, si disfece e scomparve. La Terra l’ha dimenticata». È forse questa la stessa sorte toccata alla mnemotecnica?  Che la scomparsa sia così definitiva è poco plausibile. Come ricorda Yates nel famoso saggio The art of memory, nonostante la sua ricerca s'arresti nel XVIII secolo con Leibinz è certo che dell'arte della memoria «ci furono numerose sopravvivenze nei secoli successivi». Non è nostra pretesa quella di affrontare una questione così vasta, ma lo statuto di paradossale imperdutezza della mnemotecnica, in un'epoca di enormi risorse e di incrollabile distrazione, fa sì che attraversare l'argomento ci permetta di insistere a percorre le vie dell'attenzione non addomesticata, riattivando e coltivando il processo immaginativo-simbolico.  Esplorare qui le figure dell'arte della memoria (le sue immagini agenti) vuol dire ritrattarne lo statuto di disimpiego, per vedere dove continuano a condurci - cosa in esse s'ostina a fiorire.  È il caso dell'albero.

Albero dei due avventi, Liber figurarum, Oxford,  Corpus Christi College, MS 225a, fol. 10r. circa 1200–20.

Albero dei due avventi, Liber figurarum, Oxford, Corpus Christi College, MS 225a, fol. 10r. circa 1200–20.

La figura dell'albero come congegno mnemonico ha una lunga storia nella tradizione cristiana. Sia esso concepito come sostegno puramente immaginario, cioè come struttura mentale, oppure come elemento iconografico, l'albero conosce impieghi molteplici: tronco e rami vengono coperti di scritte, adottati come schemi di tempo che infigurano genealogie e prefigurano eventi. Loci biblici, vizi, virtù, gerarchie tra saperi, costruzioni logiche: arbores consanguinitatis, arbores affinitatis, arbores juris, arbores historiae, arbores genealogiae, arbores Porphyriana... l'albero, «con il suo carattere vitale — che cresce, fiorisce, estende le sue radici nel terreno e i suoi rami e le sue foglie verso il cielo —, è [...] metafora polivalente, simbolo e soggetto allegorico. Durante il Medioevo, diversi schemi iconografici si basavano sull'immagine e sulla struttura dell'albero.» (The Tree. Symbol, Allegory, and Mnemonic Device in Medieval Art and Thought).  Spargendo lo sguardo fra i suoi dotti intrecci, l'albero soccorre la mente nella comprensione di quegli argomenti che altrimenti risulterebbero più ostici: è un itinerario di carattere ordinatorio, ma non per questo necessariamente costretto nella linearità. Giocchino da Fiore ne sintetizzerà l'efficacia con queste parole: «Ma poiché la capacità di comprensione della mente, spesso occupata e distratta, può venir meno, pensiamo che valga la pena di rappresentare gli argomenti di cui trattiamo attraverso le immagini di alberi spirituali, così che ciò che l'occhio del corpo vede, l'occhio della mente lo possa illuminare» (Liber concordie novi ac veteris Testamenti). Importante è anche la connessione dell'albero con l'ars predicandi, se un predicatore del XV secolo arriverà a dire che «praedicare est arborisare».

Pacino di Bonaguida, Albero della vita, Biblioteca Trivulziana, MS 2139, fol. 435r. c. 1320–30.

Pacino di Bonaguida, Albero della vita, Biblioteca Trivulziana, MS 2139, fol. 435r. c. 1320–30.

Molto noto, e destinato a notevole diffusione, è il Lignum vitae di Bonaventura da Bagnoregio. Si tratta di un piccolo trattato, che il Doctor Seraphicus scrive nella seconda metà del XIII secolo per insegnare a imprimere nella memoria i diversi avvenimenti della vita del Cristo, che qui vengono collocati in un albero immaginario (arbor imaginaria): «e poiché l'immaginazione aiuta l'intelletto, quelle poche cose che ho derivate dalle molte, le ho radunate in un albero immaginario, e le ordinate e disposte in modo tale che nella parte prima e più bassa dell'espansione dei rami si rappresentino la nascita e la vita del Salvatore, nella parte centrale, la sua Passione, e in quella più alta, la sua glorificazione».  Praenuntiare, promettere ac praefigurar: la vita del Cristo è attraversata da una moltitudine di movimenti figurali; l'esercizio di ricordarne gli eventi coincide -nel Lignum vitae- con un'arborizzazione della memoria, una fioritura di immagini mentali che legano insieme invenzione, emotività e devozione[2]. Qui l'immaginazione ha un carattere doppiamente operativo e morale: in quanto intermediario, aiuta la comprensione, purifica e fa germogliare la fede nel ricordo degli eventi sacri, fermo restando che il suo carattere limitato non può in alcun modo esaurire la ricerca del divino. Scriverà Bonaventura in un magnifico passaggio del De triplici via che l’Amato non è «immaginabile», ma «tutto desiderabile»:

L’uomo che aspira ad amare immediatamente e perfettamente Iddio, al momento della meditazione, dica a se stesso: l’Amato non è sensibile, perché non visibile, non udibile, non odorabile, non gustabile, non tangibile; perciò non sensibile, ma tutto desiderabile. Pensi poi che non è immaginabile, perché non ha un termine, non è figurabile, non numerabile, non circoscrivibile, non commutabile; quindi davvero non immaginabile, ma tutto desiderabile. Consideri infine che non è intelligibile, perché non dimostrabile, non definibile, superiore ad ogni pensiero, apprezzamento e investigazione; quindi non afferrabile con la mente, ma tutto desiderabile.» (De triplici via)

Nel corso dei secoli successivi, le immagini mentali di Bonaventura a loro volta sbordano, si traducono in schemi iconografici riportati in manoscritti, fatti sfavillare nelle vetrate delle cattedrali, scolpiti oppure affrescati, come nel caso dell'Albero della vita della basilica di Santa Maria Maggiore. Questa sfavillare della memoria che s'incarna ovunque  - nel calore commosso della pietra scolpita o nella materia luminosa del vetro -  desta in noi l'idea che solo la smemoratezza è autenticamente indimenticabile: non possiamo cioè fare a meno di rivolgerci a essa per pungolarla, per romperne l'ostinato dominio, come insegnano gli esempi sin qui citati. La disciplina dell'immaginazione viene arruolate nella lotta ai dispositivi dell'oblio. Così, la smemoratezza diviene indimenticabile proprio perché dimenticata a memoria. Ma affinché questa facoltà immaginativa germogli senza diventare scienza monumentale, sapere frigido e frenante, essa deve passare attraverso il libro del mondo, imparare a conoscere la sua grande foresta di figure e fantasmata, per discernerli, montarli e agitarli in un continuo movimento danza: dimensione coreosofica della memoria.[3]

Nel mito dell'analisi, James Hillman dedica una riflessione proprio allo smarrimento dell'ars memoriae, ripercorrendone la vicenda, fino al tramando del compito più nobile:

Anche se a volte l'arte della memoria si ridusse a un semplice metodo per raggiungere l'eccellenza retorica o a uno strumento tecnico per l'apprendimento, essa fu essenzialmente - nelle mani di uomini come Alberto Magno, Tommaso d'Aquino e i domenicani, per certi dotti rinascimentali, come Giordano Bruno - un'attività morale dell'anima. Apprendimento e ricordo erano al servizio della psiche. Quest'arte va vista non come una mera accumulazione ossessiva di fatti ma come una sorta di meditatio, un addestramento a discernere ciò che è pertinente, una elaborazione della tendenza immaginale che permette alla mente di conoscere intimamente tutte le regioni del cosmo.

Conoscere intimamente tutte le regioni del cosmo: tentare cioè l'addentro alle cose, toccarle nel punto in cui smarriscono la fisionoma già nota, avendo cura a nostra volta di abbandonare gli usurati processi di smarrimento. Ecco perché le combinazioni vegetali, i mostri ibridi, le figure danzanti che abitano i margini dei manoscritti medievali sono oggi un'ulteriore risorsa per una lettura lettura del mondo concepita oltre la metrica dell'individuo e della contemporaneità. Cerchiamo con audacia un Teatro della memoria che non si occupi più soltanto di altezze sopraccelesti, ma del sotterraneo intreccio delle cose: un Theatrum subterraneus,  portato a livello delle radici, come nell'invito di Aby Warburg, con il quale possiamo per il momento congedarci: «Chi vuole potrà pure contentarsi di una flora fatta delle piante profumate più belle, ma da esse non si ricava una fisionomia vegetale della circolazione delle linfe: questa si svela solo a chi esamini la vita nel suo intreccio sotterraneo di radici».

 

 

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Note

[1] Credenza mai del tutto dimenticata, se Iosif Brodskij, parlando di Venezia, arrivò a scrivere nel secolo scorso: «Si è ciò che si guarda [...]. La credenza medievale secondo cui una donna incinta doveva guardare sole cose belle se voleva avere un bel bambino non è poi così ingenua se si considera la qualità dei sogni che si sognano in questa città» (Fondamenta degli incurabili).

[2] Si veda, a proposito: Lina Bolzoni, La rete delle immagini.

[3] Secondo una magnifica definizione di Aurel Milloss: «È danza ogni moto, ogni azione, ogni avvenimento. Ogni atteggiamento esistente è il prodotto armonico di un procedimento di danza». Aurel Milloss, in Coreosofia, scritti sulla danza (Venezia: Leo S. Olschki, 2022), 65.

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(1997) è poeta, regista, curatore del progetto ”edizioni volatili”, e redattore di “nazione indiana”. Ha co-diretto la “trilogia dei viandanti” (2016-2020). Suoi interventi sono apparsi su “Le parole e le cose”, “Doppiozero”, “Antinomie”, “Il tascabile” e altri. Ha pubblicato La consegna delle braci (Luca Sossella editore) e La specie storta (Tlon edizioni).

Pubblicato:
07-02-2023
Ultima modifica:
15-03-2023
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