Scrivere la natura umana oltre l’Antropocene - Singola | Storie di scenari e orizzonti
Rain walking
Rain walking | Copyright: Sebnem Gulfidan / Flickr

Scrivere la natura umana oltre l’Antropocene

In che modo un romanzo, una poesia, in generale le forme tradizionali della cultura, possono aiutarci a capire il nostro ruolo nei cambiamenti ambientali?

Rain walking | Copyright: Sebnem Gulfidan / Flickr
Fabrizia Gagliardi

lavora nel digital marketing a Milano. Ha scritto per diverse riviste, tra cui La Balena Bianca, Flanerì e Cattedrale.

Nel racconto dell’essere umano qualcosa è cambiato.
A voler forzare la mano individuerei l’origine del cambiamento, come accade per molte delle rivoluzioni degli ultimi anni, in un piccolo sommovimento linguistico. Penserei a Paul Crutzen, Premio Nobel per la Chimica, che nel 2000 nella newsletter n.41 dell’IGPB   un programma di ricerca per lo studio dell’interazione tra cambiamenti fisici, chimici e biologici della Terra e il loro impatto sui sistemi umani   espone una comprovata definizione dell’Antropocene, «perché continuiamo a chiamarlo Olocene?». A quanto pare ci viviamo da un po’ perché alcune delle prove a sostegno della teoria collocano la nuova era all’alba dell’età industriale, alla fine del diciottesimo secolo. Negli ultimi 150 anni l’umanità ha esaurito il 40% delle riserve petrolifere conosciute; quasi il 50% della superficie terrestre è stata trasformata dall’azione umana diretta con conseguenze sulla biodiversità, sulla biologia del suolo e sul clima; i livelli di anidride carbonica sono cresciuti esponenzialmente nell’ultimo milione di anni; il livello dei mari potrebbe innalzarsi per ogni grado di temperatura in più.

Al pari delle altre specie animali l’uomo interagiva con l’ambiente, ora l’azione della sua presenza si configura come un vero è proprio impatto geologico.
Uno scetticismo individualista sminuirebbe il tutto con un’alzata di spalle, perché il complesso di fenomeni che caratterizza l’Antropocene riesce a dare la stessa frustrazione di un surplus informativo, con due possibili reazioni. Da una parte alcuni studiosi hanno iniziato a parlare di eco-ansia: non classificato come un vero e proprio disturbo dell’ansia, ma comunque uno stato di malessere emotivo provocato da pensieri sulla crisi ambientale. La sensazione è molto simile all’essere sopraffatti da questioni imperscrutabili, sentirsi piccoli rispetto al grado di complessità di nuovi problemi.

C’è anche chi negli strati climaticamente privilegiati della popolazione   anche se l’Antropocene provoca conseguenze molto più democratiche di altre piaghe di cui l’umanità è vittima   percepisce un senso di distanza e apatia e non un vero coinvolgimento. Nonostante molte delle ripercussioni siano già in atto, ben visibili, l’informazione ha spesso scelto dati e proiezioni che raccontano di cambiamenti spaziali e temporali riscontrabili solo attraverso alcuni indizi (l’aumento della temperatura, lo scioglimento dei ghiacciai, i dati centellinati sull’innalzamento dei mari e l’aumento delle temperature, per esempio) mai abbastanza integrati in una lettura in prospettiva.

In entrambi i casi, il problema di affrontare l’Antropocene sembra avere a che fare con una sfida all’immaginazione. Letteratura e arte si sono messe alla ricerca non tanto di nuove forme di rappresentazione, quanto di nuove modalità per innescare un cambiamento e sensibilizzare gli interlocutori. Una scelta che oscilla pericolosamente al confine tra un messaggio più inclusivo e politicizzato, confezionato però con le modalità tradizionali del racconto, e una sollecitudine moralista che svuota il fascino artistico di stile e identità. L’obiettivo è ritrarre sempre di più voci fuori dal coro, nuove abitudini, al fine di mettere in dubbio le norme tradizionali della collettività per realizzare opere così mainstream da sollecitare un’interdipendenza profonda tra quanto letto e quanto s’inizia a immaginare per cambiare nella realtà.

È un processo che ha bisogno di una lunga sedimentazione eppure negli ultimi anni la saggistica e la fiction sono state in grado di dividersi un lavoro di percezione non indifferente.
La non-fiction, per esempio, con un approccio più canonico, ha cercato di organizzare la conoscenza per traslare la straordinarietà di eventi climatici e biologici sempre più ricorrenti in un luogo più lucido e analitico, lontano dalla nebbia dell’impulsività e del panico.

Si pensi per esempio a Il mondo in fiamme. Contro il capitalismo per salvare il clima (traduzione di Giancarlo Carlotti, Feltrinelli, 2019) in cui la giornalista Naomi Klein indaga i principali disastri ambientali sotto la lente del consumismo capitalista, dalle responsabilità politiche alla disuguaglianza sociale. Nonostante sia uscito qualche anno fa, La sesta estinzione. Una storia innaturale (traduzione di Cristiano Peddis, BEAT, 2016) di Elizabeth Kolbert resta un’analisi fondamentale per ricostruire l’evoluzione di un homo sapiens che ha determinato i «Big Five», cinque catastrofi che s’inseriscono in quella che viene definita la Sesta Estinzione. Tra i lavori più recenti c’è per esempio Perdere la terra di Nathaniel Rich (traduzione di Manuela Faimali, Mondadori) che si concentra sulle responsabilità tra eroi e complici delle emissioni di anidride carbonica; fino ad accurate analisi nostrane dal taglio giornalistico come I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo di Stella Levantesi (Laterza, 2021), che considera gli intricati meccanismi del negazionismo climatico; L'altro mondo. La vita in un pianeta che cambia di Fabio Deotto (Bompiani, 2021) un reportage narrativo appassionato che va alla ricerca di prove e disinnesca trappole cognitive di cui siamo vittime quando pensiamo alla crisi climatica; Il clima che cambia. Perché il riscaldamento globale è un problema vero, e come fare per fermarlo di Luca Mercalli (BUR Rizzoli, 2019) uno studio meteorologico e ambientale utile a sviluppare una consapevolezza di quello che sta accadendo al pianeta.

Per il romanzo la sfida è più ardua perché l’impersonalità incombe e la capacità di concentrarsi sull’interiorità umana potrebbe spostare l’attenzione rispetto all’indagine su cause e conseguenze. Ci sono però opere che hanno superato la prova con risultati che capovolgono completamente la prospettiva non mettendo più al centro l’essere umano. La Trilogia dell'Area X Di Jeff VanderMeer (traduzione di Cristiana Mennella, Einaudi, 2018) è l’esempio più affascinante di come il futuro, senza una vera e propria lungimiranza per le scelte del presente, può assumere solo la forma di un mondo post-umano, in cui le strutture umane sono state riprogettate dalla natura. Oppure, senza sfociare nel weird e nella fantascienza, i romanzi di Richard Powers come Il sussurro del mondo e Smarrimento (entrambi tradotti da Licia Vighi per La Nave di Teseo) dimostrano che è possibile conciliare un’epica ambientale e umana con attenzione ed eleganza di stile.

La ferrea selezione di generi e stili è molto utile per comprendere lo stato delle cose e le possibilità immaginative, tuttavia non nego che etichettare un genere equivale spesso a ricercare confini lì dove, nella mente del lettore, potrebbero aprirsi spazi sconfinati. Rimanendo fedeli a uno dei mantra più sdoganati della scrittura, quello del mostrare, non dire, bisogna ammettere che un aspetto della realtà diventa più nitido anche quando non lo si indica esplicitamente. Il dettaglio può far parte del paesaggio, la sua normalità colpisce o stride, paragonabile a un particolare che attira lo sguardo, un movimento registrato con la coda dell’occhio.

Mi riferisco a opere tra la narrativa e il nature writing che nascondono potenzialità inaspettate, come stanno dimostrando, per esempio, i libri della collana La frontiera selvaggia de La Nuova Frontiera. L’intento è quello di accogliere testi che in modi diversi tratteranno del rapporto fra l’uomo, la natura e gli altri esseri viventi. È interessante notare che una delle caratteristiche è la natura ibrida della proposta: al suo interno troveranno posto testi che spaziano dalla fiction alla saggistica, passando per la diaristica e il nature writing.

La scelta di aprire la collana con Una passeggiata d’inverno di Henry David Thoreau non poteva che confermare da subito l’intento di gettare le basi per una delle questioni cruciali quando si affronta la natura con gli occhi di uno scrittore: il recupero della contemplazione linguistica e il fascino che da sempre ricopre il racconto, sia esso orale che scritto. All’interno troviamo Una passeggiata d’inverno e Camminare, tradotti da Tommaso Pincio e arricchiti dalle illustrazioni di Rocco Lombardi. Si tratta di due opere brevi che riunite insieme creano una litania naturalistica non indifferente anche a chi è poco avvezzo al vagare solo e assorto in un bosco.

«Se le nostre esistenze si uniformassero meglio alla natura, probabilmente non avremmo bisogno di proteggerci dal caldo e dal freddo, ma troveremmo in lei l’amica e balia fedele che è per piante e quadrupedi». È chiaro sin da subito un contrasto che vede la sconfitta dell’uomo, non come la vittima di una sopraffazione ma come quella di colui che osserva la giustizia di una natura che fa il suo corso: il mulinare del vento, la placida quiete della neve che si posa indistintamente sul paesaggio racchiudendo il panorama in un’armonia cromatica e sonora impressionante, le tracce e i suoni di altri esseri viventi a loro agio nella quotidianità istintuale dei loro riti. L’attività dell’uomo si riconosce nell’abbandono, come il tronco di un albero usato per spaccare la legna («Su questo singolo frammento di legno è incisa non soltanto la storia del boscaiolo ma del mondo intero») o la lingua di fumo della casa isolata di un cacciatore che si è spostato di nuovo in città.

Thoreau è stato un punto di congiunzione cruciale tra l’universo scientifico e il mondo selvaggio rapportato all’uomo. Il romanticismo vittoriano si unisce al pragmatico ottimismo di chi, come lui, dimostrava interesse per le nuove tecnologie e che da cauto trascendentalista vedeva nel selvaggio il rimedio agli sconvolgimenti delle città industriali in pieno sviluppo.
Proseguendo la lettura di Camminare si avverte lo stesso fervore di un pamphlet politico-ecologico. «C’è poco da attendersi da una nazione, una volta che il sostrato vegetale è andato esaurito e far da concime non restano che le ossa dei padri».

Il ritorno alla natura diventa una questione linguistica, paragonabile alla ricerca di una buona narrazione per intrattenere l’animo. Thoreau si chiederà «dov’è la letteratura che dà voce alla natura?» perché risalire all’origine delle parole usate significa «trapiantarle nella pagina insieme alla terra ancora attaccata alle loro radici». Senza contare che la monotonia è fin troppo addomesticata per far parte di storie avvincenti, il selvaggio mina la serenità della quiete ma stimola il cambiamento: osservare la superficie usando sempre le stesse parole è rischioso perché fa perdere l’indagine e l’approfondimento.

Uno degli aspetti più affascinanti del rapporto uomo-natura riguarda la capacità di raccontare quest’ultima facendo leva sul bisogno dell’uomo di creare e nutrirsi di storie, intessere collegamenti contro la casualità degli eventi. In corrispondenza diretta e in perfetta sincronia l’editoria contemporanea risponde con uno spunto su cui si basa, per esempio, anche la scrittura di Berry Lopez. In Attraverso gli spazi aperti (pubblicato da Edizioni Black Coffee con la traduzione di Sara Reggiani) ci trasporta nei territori dell’oca delle nevi allineando l’incedere delle parole alla Quinta sinfonia di Beethoven; racconta nei minimi dettagli la cronaca intorno a un caso di balene spiaggiate sulla costa dell’Oregon; osserva il destino delle foche e la presenza dell’uomo in una sperduta isola ai confini dell’Oceano Antartico. Da episodi di anni fa, ricreati dagli occhi dell’autore, potremmo ricevere una visione fallata, necessariamente di parte, eppure la scrittura di Lopez travalica i confini di ogni conoscenza soggettiva e ha il potere di operare un miracolo: creare un mondo anche per chi non ha mai visto quei luoghi e stimolare un’estasi contemplativa anche solo lontanamente vicina a chi vi ha assistito in prima persona. Emerge una premessa cruciale per tutte quelle opere in grado di attraversare anni e generazioni: è molto simile a un sentimento antico, quasi infantile, del riunirsi attorno all’intimità del fuoco per solleticare l’immaginazione propria e altrui con una disposizione d’animo aperta al tacito conforto.

Il medesimo fascino pervade Le stelle si spengono all’alba di Richard Wagamese, il terzo titolo della collana della Nuova Frontiera che questa volta sceglie la narrativa per gettarsi nei grandi spazi del nord canadese. Franklin Starlight è un adolescente indiano cresciuto immerso nella natura, avvezzo al lavoro tra animali, terra e paesaggi straordinari. È stato cresciuto da un anziano signore che è riuscito a isolarlo dal mondo cupo e incerto prospettato dal vero padre. Eldon Starlight, infatti, è consumato dall’alcol e dalle decisioni mancate e, proprio quando si sente vicino alla fine, decide di rimettersi in contatto con il figlio. Il desiderio di Eldon è intraprende un viaggio nei ricordi, attraverso l’imponenza e le insidie delle montagne canadesi, per essere seppellito nei territori dell’ovest, come un guerriero Ojibwe, seduto, rivolto a est. Il racconto del viaggio si alternerà ai flashback di un uomo che intende riscattare storia e identità.

Nel limbo identitario e culturale delle popolazioni indigene si è mosso il destino disgraziato di Eldon: l’infanzia nomade, mai davvero integrata a causa delle origini indiane e, allo stesso tempo, lontana dalle tradizioni della propria comunità; l’illusione di poter trovare un posto nel mondo, la guerra in Corea, piccole gioie fugaci e la soluzione dell’oblio definitivo offerta dall’alcol. La sua voce è un fantasma, emarginato persino dalla canonica storia di riscatto e crea l’effetto straniante di un viaggio di formazione a ritroso: se di solito per i personaggi dei romanzi la narrativa del sé è la consapevolezza di chi è abituato a immaginarsi in una sorta di antieroe, per Eldon l’invisibilità di storia e finzione personale lavorano come una grande erosione delle radici.

In fondo quello che chiamiamo casa e che identifichiamo come il luogo in cui confezioniamo pezzi d’interiorità negli angoli polverosi di un appartamento troppo piccolo, su copriletti strappati ai bordi, toppe mai messe su abiti che conserviamo gelosamente negli armadi, è un accrocchio di autonarrazioni, versioni caleidoscopiche di noi stessi che creano il paesaggio carsico di ricordi e identità.

«Cosa vedono gli occhi   scollegati dalla ragione, ma non dal cuore   che ci fa percepire un determinato luogo come casa? Che la vista cospiri con altri sensi in una sorta di processo sinestetico, reagendo ai colori di un luogo come se fossero odori o sapori, oggetti tangibili o rumori?» a scriverlo è Ellen Melloy in Antropologia del turchese (pubblicato da Edizioni Black Coffee con la traduzione di Sara Reggiani). Si tratta di una raccolta di saggi ambientati tra la California, il deserto del Mojave, i canyon dello Utah fino alle Bahamas, in cui l’autrice inaugura un viaggio spirituale, emotivo e primordiale nella natura. Il recupero dei sensi per orientarsi e, in particolare, l’attenzione alla percezione cromatica di quello che ci circonda sono i punti cardinali di una mappa che recupera la seduzione dell’ignoto.

Non è strano che il pensiero colleghi un saggio così approfondito sulla sensorialità ambientale e il filosofo australiano Glenn Albrecht. Lo studioso stava valutando gli effetti della siccità a lungo termine e dell'attività mineraria sulle comunità del Nuovo Galles del Sud quando ha coniato il termine “solastalgia”: una forma di disagio psichico causato dal cambiamento ambientale che provoca infelicità nelle persone che vedono modificati irrimediabilmente i paesaggi identificati come casa.
Una sensazione simile devono averla provata gli abitanti degli Appalachi coinvolti sin dal New Deal in un processo di trasformazione forzata: dalla costruzione di centrali idroelettriche, alla creazione di laghi artificiali che sconvolgono il paesaggio, fino al proposito di portare modernità e apertura all’esterno di comunità tradizionalmente chiuse e isolate.
Lo racconta bene Ron Rash in Un piede in paradiso (La Nuova Frontiera, traduzione di Tommaso Pincio). Tinte noir lambiscono la mitologia di queste terre con un racconto che si snoda su una linea temporale molto ampia grazie all’alternarsi delle voci dei protagonisti. Nella piccola contea di Oconee si consuma il dramma di Holland Winchester, reduce della guerra di Corea, alcolizzato e rissoso, che all’improvviso scompare nel nulla. Quello che potrebbe essere lo svolgimento tipico di un giallo prende strade tangenti di cinque personaggi che racconteranno la loro versione in altrettanti capitoli del libro. Appare limitante attribuire al romanzo un unico genere letterario perché la scrittura concitata e ricca di suspense delle prime indagini assumerà i ritmi più cauti e narrativi delle singole interiorità che graviteranno attorno all’evento principale. In questo modo la storia si frammenta in tanti piccoli climax affidati alle diverse prospettive.

In molte opere contemporanee si riconoscono i caratteri antropologici e geografici tipici degli Appalachi: cittadine minuscole regolate da valori quasi tribali e superstizioni da realismo magico, trionfo e inquietudine della natura che hanno la meglio sul mondo degli uomini, un mondo più incline a seguire l’istinto, la vendetta, i bisogni primordiali del sangue. Qualcuno ricorderà le atmosfere di William Faulkner o di Flannery O’Connor, con echi più recenti dell’imponente epica western di Cormac McCarthy e del clima del Kentucky di Chris Offutt. Ron Rash si aggiunge all’elenco giocando sottilmente sul paradosso di terre in cui il passato e la scomparsa sono motori potenti in grado di generare il futuro.

La memoria non ammutolisce mai perché la località protagonista delle vicende viene chiamata la “valle degli scomparsi”, disseminata di tracce silenziose dei Cherokee che un tempo l’uomo bianco ha spodestato violentemente. È una vicenda che si nominerà molto poco, come se tutti fossero vittima di un oblio collettivo, eppure la sua tacita onnipresenza ricorda l’ironia della sorte di chi viene spodestato dalla propria terra come in precedenza aveva fatto con gli individui autoctoni.

L’acqua è la maternità viaggiano parallelamente tra il dono della vita e la morte, entrambe insegnano che sono in grado di plasmare un territorio insieme all’interiorità delle persone che lo abitano, che il mondo non può essere diviso nettamente tra buoni e cattivi, che nulla resta dimenticato per sempre.
Probabilmente alla fine della lettura dovremo accogliere una verità candidamente espressa anche da Ellen Melloy: «Forse, per conoscere meglio un posto che ci è familiare, prima dovremmo estraniarcene».
Nessuno dei testi trattati accenna a dottrine o assiomi imprescindibili da applicare alla realtà, ma contiene sguardi e suggestioni che fanno leva sul sismografo delle emozioni e dell’empatia favorite dall’originalità della composizione.

Le incursioni naturalistiche di Thoreau, insieme allo sguardo indigeno di Wagamese e alla memoria mancata di Ron Rash, racchiudono mondi compositi che lavorano su piani paralleli: la trama principale assume un’entità rizomatica in grado non solo di raccontare una storia tra le miriadi disponibili, ma anche di tenerla costantemente a contatto con una realtà naturale che si fa sempre più incerta. Tale cammino sopra il baratro ha a che fare col recupero di una complessità di cui il racconto dell’Antropocene non può fare a meno.

Se vogliamo ripensare la sua narrazione abbiamo bisogno di colmare il divario tra un rapporto di tipo utilitario e un rapporto più generoso, volto a un ascolto sincero, perché la storia della fine della natura si sta sovrapponendo alla nostra. Non occuparsene significherebbe negarsi una parte di futuro insieme alla possibilità di sbarazzarsi di zavorre cognitive e culturali.
Ecco perché, con il racconto personale, lo stesso malinconico disorientamento dei protagonisti che hanno storie anche molto lontane da noi ha la potenzialità di trasformarsi in un racconto collettivo e comune.
Il tempo della lettura di opere con uno sguardo tra l’inedito e l’inaspettato sulla natura è il tempo della contemplazione. Dedicargli spazio significa far entrare mondi sconosciuti, esplorare l’ignoto, mettere a disagio le forme canoniche dell’essere umano.

Hai letto:  Scrivere la natura umana oltre l’Antropocene
Globale - 2022
Pensiero
Fabrizia Gagliardi

lavora nel digital marketing a Milano. Ha scritto per diverse riviste, tra cui La Balena Bianca, Flanerì e Cattedrale.

Pubblicato:
16-05-2022
Ultima modifica:
16-05-2022
;